UNITÀ 13

L’età di Cesare

CAPITOLO 1

Sotto il segno di Silla - Roma nell’epoca di Pompeo e Crasso

1. Le guerre degli anni settanta

Due protagonisti

Quando Silla era ancora un brillante generale impegnato a reprimere la rivolta degli italici e, più tardi, negli anni della dittatura e delle proscrizioni (vedi Unità 12), ebbero modo di segnalarsi al suo fianco due giovani rampolli dell’aristocrazia conservatrice, Gneo Pompeo (106-48 a.C.) e Marco Licinio Crasso (115-53 a.C.). Il primo colpì l’immaginazione dei contemporanei perché nell’82 a.C., nel momento in cui Silla si accingeva a marciare contro i mariani, aveva arruolato un proprio esercito personale tra i clienti della sua gens, mettendolo a disposizione del futuro dittatore. Il secondo, invece, si era arricchito sfacciatamente attraverso le proscrizioni, al punto che a Roma lo chiamavano semplicemente dives, “il ricco”. Questi due uomini dal passato torbido furono tra i protagonisti dei successivi decenni della storia repubblicana.

La guerra di Sertorio

In un certo senso, gli anni settanta del I secolo a.C. furono una prosecuzione della lotta fra Mario e Silla, perché, anche se i due rivali erano morti, il contrasto che li aveva opposti venne ereditato dagli uomini che avevano combattuto al loro fianco. Abbiamo ricordato che un consistente gruppo di mariani, fuggiti da Roma all’epoca delle proscrizioni, aveva trovato rifugio in Spagna. Guidati da Quinto Sertorio, ex ufficiale di Mario, questi fuoriusciti avevano dato vita a una specie di guerra privata contro lo stato centrale, ottenendo anche l’appoggio di alcune popolazioni indigene, mai del tutto assoggettate al dominio romano.

Il compito di liquidare questo ultimo focolaio di resistenza mariana fu affidato con un comando straordinario a Pompeo, che aveva già al suo attivo una breve ma brillante carriera militare. La guerra si rivelò peraltro più dura del previsto: le operazioni si protrassero dal 76 al 71 a.C. e si conclusero a favore di Pompeo solo grazie al tradimento di uno degli uomini di Sertorio. A seguito di tali operazioni, Pompeo fu insignito dell’epiteto di Magnus (“il Grande”) e ottenne dal senato l’onore di celebrare il trionfo.

Spartaco e la rivolta degli schiavi

Contemporaneamente, a trent’anni circa dalla repressione dell’ultima grande rivolta servile in Sicilia (vedi Unità 12), l’incubo di una sollevazione generalizzata degli schiavi tornò a presentarsi, assumendo questa volta proporzioni ancora maggiori e coinvolgendo come teatro di guerra l’intera penisola. Tutto cominciò alla fine del 74 a.C. con la fuga di un gruppo di schiavi dalla scuola per gladiatori di Capua (nell’odierna Campania). Guidato da Spartaco, un ex soldato originario della Tracia, il gruppo si ingrossò fino a diventare un vero e proprio esercito (si parla di 120 000 uomini, fra individui di condizione servile e liberi ridotti in stato di miseria), che impegnò le truppe consolari per ben tre anni, sconfiggendole ripetutamente.

Alla fine il senato affidò a Crasso un comando eccezionale per porre termine alla ribellione e questi inflisse agli schiavi la sconfitta definitiva nel 71 a.C., in Lucania. La maggior parte dei rivoltosi fu massacrata in battaglia – Spartaco stesso cadde sul campo –, mentre i superstiti, circa 6 000, vennero crocifissi lungo la strada che collegava Capua a Roma. Un altro drappello, che era riuscito a sfuggire a Crasso dirigendosi nel Nord Italia, fu intercettato dall’esercito di Pompeo che tornava dalla Spagna e annientato.

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La misura della considerazione in cui erano tenuti gli schiavi, anche quando, come in questo caso, si erano rivelati nemici tenaci e combattivi, è data dal fatto che Crasso non chiese al senato il trionfo per la vittoria: come spiega un antico biografo, era infatti «ignobile e poco decoroso trionfare per una guerra contro degli schiavi».

La rivolta di Spartaco Nel 74 a.C. la repubblica romana fu sconvolta da una rivolta servile che si estese a tutta la penisola. A guidarla fu Spartaco, schiavo-gladiatore raffigurato in questa scultura del XIX secolo, divenuto simbolo della lotta per la libertà.

2. L’ascesa di Pompeo e la congiura di Catilina

Il consolato di Pompeo e Crasso

Tornati a Roma vittoriosi, Pompeo e Crasso potevano ormai aspirare a un ruolo di primo piano sulla scena politica, e infatti furono entrambi eletti al consolato per l’anno 70 a.C. (anche se il primo non aveva l’età minima richiesta per ricoprire la carica e non aveva ancora percorso tutte le tappe previste dal cursus honorum).

I due consoli smantellarono gli aspetti più odiosi della legislazione sillana. Anzitutto restituirono ai tribuni della plebe le prerogative che erano state loro sottratte dal dittatore, abolendo altresì il divieto per essi di continuare la carriera politica una volta scaduto il loro mandato. Inoltre ammisero nuovamente i cavalieri nelle giurie incaricate di processare i governatori di provincia. Infine incaricarono i censori di allontanare dal senato 64 membri – per lo più partigiani di Silla – ritenuti indegni. L’adozione di questi provvedimenti da parte di due ex sillani di ferro come Pompeo e Crasso non implicava una sconfessione della loro giovanile partecipazione al regime di Silla; entrambi, però, avevano capito che per governare occorreva guadagnare il consenso di gruppi sociali più ampi rispetto a quelli cui aveva guardato a suo tempo il dittatore, cioè di fatto la sola aristocrazia senatoria.

Il processo a Verre

L’anno del consolato di Pompeo e Crasso passò alla storia anche per un processo che tenne con il fiato sospeso l’intera cittadinanza. L’imputato era Gaio Verre, ex governatore della Sicilia dal 73 al 71 a.C., che durante il suo mandato si era macchiato di innumerevoli abusi ai danni di cittadini romani e provinciali, accumulando un’immensa fortuna personale. Ad accusare Verre furono gli stessi siciliani, i quali a difendere i propri interessi chiamarono un giovane avvocato emergente, destinato a un grande futuro, Marco Tullio Cicerone, che essi avevano avuto modo di apprezzare qualche anno prima (75 a.C.), quando era stato questore nell’isola.

Ma la posta in gioco del processo non era legata solo alla sorte personale di Verre o all’immagine del dominio romano agli occhi dei provinciali. In ballo c’era la credibilità di un tribunale formato da soli senatori, dato che la riforma progettata da Pompeo e Crasso non era ancora entrata in vigore. Se la giuria avesse assolto Verre, in nome dei comuni vincoli di ceto, questo avrebbe definitivamente dato ragione a quanti vedevano in quei tribunali un luogo di impunità piuttosto che una sede di imparziale accertamento della verità. Fortunatamente Verre, di fronte alle prove schiaccianti raccolte da Cicerone (il quale per l’occasione compose le sette orazioni dette Verrine), non attese neppure l’esito del processo e preferì recarsi in volontario esilio: al tribunale non restò che prendere atto della sua implicita ammissione di colpevolezza e condannarlo in contumacia (cioè in sua assenza).

L’operazione contro i pirati

Nel decennio successivo fu soprattutto Pompeo a raccogliere i frutti del largo consenso ottenuto durante l’anno di consolato.

Già nel 67 a.C. fu a lui che il senato assegnò un comando straordinario (imperium infinitum) allo scopo di ripulire l’intero specchio del Mediterraneo dai pirati. Questi, infatti, partivano dalle loro basi in Africa, Asia Minore e Cilicia per aggredire i convogli commerciali in viaggio, danneggiando tanto gli interessi dei cavalieri, che gestivano i grandi traffici internazionali, quanto quelli della plebe, poiché molte delle navi depredate trasportavano verso Roma grano e generi alimentari di prima necessità. Poiché i precedenti tentativi di debellare la pirateria si erano rivelati vani, a Pompeo furono attribuiti il controllo totale delle forze navali, la guida di un esercito molto consistente e poteri assoluti per tre anni sull’intero bacino del Mediterraneo. Grazie a questi poteri straordinari egli riuscì nell’arco di pochi mesi a stroncare completamente l’attività dei pirati.

La campagna in Asia Minore

Sull’onda del brillante successo, l’anno seguente venne affidato a Pompeo un altro compito estremamente delicato: quello di chiudere una volta per tutte la partita contro il re del Ponto Mitridate VI.

Dopo la tregua provvisoria conclusa anni prima da Silla (vedi Unità 12), infatti, Mitridate aveva ripreso in grande stile l’iniziativa diplomatica e militare, alleandosi con il re dell’Armenia Tigrane e occupando una serie di territori nel cuore dell’Asia Minore, a ridosso della provincia romana d’Asia. Un primo corpo d’intervento inviato da Roma ottenne successi non risolutivi; la situazione di stallo indusse il senato, nel 66 a.C., a invocare nuovamente l’intervento di Pompeo. Nel giro di tre anni egli recuperò i territori asiatici occupati da Mitridate e costrinse quest’ultimo a darsi la morte, mentre il Ponto fu ridotto a provincia.

Ma in Oriente Pompeo si mosse ad ampio raggio, con l’intenzione di dare un assetto politico stabile all’egemonia romana nell’area. I suoi eserciti si spinsero sino alla Palestina, che fu posta sotto il protettorato di Roma. Sfruttando il proprio carisma e i pieni poteri di cui era dotato, il generale strutturò alcuni dei territori orientali in forma di province, come la Siria e la Cilicia, mentre in altri casi preferì insediare – sul trono o alla guida delle città – notabili locali graditi a Roma e, naturalmente, legati da un rapporto personale di gratitudine allo stesso Pompeo, al quale dovevano il loro potere. Direttamente o indirettamente, Roma arrivò così a controllare un’area vasta ed economicamente molto ricca, che dalle sponde del Mediterraneo giungeva sino all’Eufrate.

L’“affare Catilina”

Alla fine del 63 a.C., mentre Pompeo era ancora impegnato in Oriente, a Roma fu scoperto e sventato un tentativo di colpo di stato orchestrato da un nobile caduto in miseria, che in passato era stato un sostenitore di Silla, Lucio Sergio Catilina.

Catilina si era arricchito enormemente all’epoca delle proscrizioni sillane, ma aveva dissipato le sue fortune in ripetuti e fallimentari tentativi di raggiungere il consolato, tra il 65 e il 63 a.C. Decise allora di instaurare con la forza un potere di tipo personale, riuscendo a raccogliere intorno a sé un ampio consenso sia in alcune frange dell’aristocrazia sia tra i ceti subalterni. La congiura fu tuttavia scoperta grazie a una delazione e venne repressa con provvedimenti ai limiti della legalità da Cicerone, che quell’anno era salito al consolato proprio imponendosi sulla candidatura di Catilina. Il 21 ottobre del 63 a.C. il nuovo console attaccò duramente il cospiratore in senato pronunciando la prima delle quattro orazioni note come Catilinarie. Alcuni complici della congiura furono catturati a Roma e messi a morte senza processo: un provvedimento del tutto contrario alle leggi in vigore, che qualche anno dopo, come vedremo, costerà a Cicerone una condanna all’esilio. Quanto allo stesso Catilina, dichiarato dal senato nemico pubblico, fu costretto a fuggire da Roma e a cercare rifugio in Etruria, dove un pugno dei suoi uomini aveva formato una sorta di esercito irregolare. La battaglia decisiva, dall’esito scontato a favore delle truppe regolari, avvenne ai primi del 62 a.C. presso Pistoia, dove Catilina morì sul campo combattendo a fianco dei suoi fedeli.

La congiura di Catilina Questo affresco del XIX secolo raffigura teatralmente Cicerone (in piedi a sinistra) mentre denuncia Catilina (seduto, isolato, sulla destra), che nel 63 a.C. cercò di ordire un colpo di stato per rovesciare il potere del senato.

Un indizio inquietante

Di per sé la congiura di Catilina fu un evento minore e tutto sommato marginale, a fronte dei grandi sconvolgimenti politici degli anni in cui ebbe luogo. Ciò che rende l’episodio meritevole di attenzione è il largo seguito che i congiurati ottennero tra il proletariato e il sottoproletariato urbano: addirittura, secondo uno storico che fu testimone dei fatti, «tutta la plebe al completo era dalla parte di Catilina». Evidentemente esistevano larghe fasce di popolazione che non si sentivano rappresentate dalla classe al potere, fasce di cui neppure i popolari riuscivano a proteggere adeguatamente gli interessi, se non nella forma assistenziale delle distribuzioni di grano a prezzo politico. Questi ceti, dimenticati dalla politica ufficiale, erano facile preda di avventurieri con pochi scrupoli (come lo stesso Catilina), ma che mostravano, almeno a parole, di prendere a cuore le loro esigenze, mirando a strumentalizzarli per affermarsi politicamente.

Pompeo in Italia

Quando, sempre nel 62 a.C., Pompeo, di ritorno dalla campagna in Oriente, sbarcò a Brindisi, fu inevitabile per molti riandare con la memoria a vent’anni prima, allorché da quello stesso porto Silla era partito alla conquista di Roma. Pompeo ritenne tuttavia politicamente più utile rispettare le norme che proprio Silla aveva varato e che imponevano ai generali di sciogliere i loro eserciti non appena toccato il suolo italico, per cui congedò i propri uomini. Le sue uniche richieste al senato furono l’assegnazione di terre ai soldati che avevano preso parte alla campagna in Oriente, secondo una prassi che dall’epoca di Mario si era ormai consolidata, e la conferma dei provvedimenti da lui assunti nel corso della spedizione. Occorreva infatti che i nuovi confini disegnati da Pompeo e la rete di re, alleati e vassalli da lui creata ricevessero l’avallo ufficiale da parte del senato, dato che un generale, anche se vincitore, non aveva l’autorità per prendere simili decisioni.

In quella circostanza l’aristocrazia dimostrò una volta di più la propria miopia politica. Il senato, infatti, temporeggiò a lungo di fronte alle richieste di Pompeo, senza decidersi né ad accoglierle né a respingerle. Il suo gesto di sciogliere l’esercito fu anzi scambiato per un atto di debolezza; con tutta probabilità molti fra i senatori ritennero il potere di Pompeo troppo ingombrante, ora che tornava carico di gloria e alla testa di un esercito a lui fedelissimo, e pensarono di cogliere l’occasione per liquidarlo senza troppi complimenti. Un calcolo politico che si rivelò, come vedremo, assai lontano dalla realtà.

IL FATTORE UMANO | Mentalità

La sfilata del mondo: la cerimonia del trionfo

Doveva essere uno spettacolo grandioso.
La città, per l’occasione, si vestiva a festa, strade, templi e altri edifici pubblici venivano addobbati e tutti si riversavano lungo il tragitto che il corteo avrebbe percorso nel suo passaggio attraverso il cuore più antico di Roma. Non minore era del resto la trepidazione di soldati e comandanti, che avevano atteso una vita intera un giorno come quello.
Questo, e molto altro ancora, era il trionfo a Roma.

Celebrare la vittoria Questa tazza d’argento del I secolo d.C. raffigura il trionfo di un generale romano: il vincitore, in piedi sul carro, con il capo cinto d’alloro e con lo scettro, chiude il corteo ed è acclamato dalla folla plaudente.

Un prestigioso riconoscimento

Circa trecento: tante sarebbero state le celebrazioni del trionfo nei primi sette secoli della storia di Roma. Si trattava di un lungo corteo che vedeva l’esercito vincitore entrare in città da una porta speciale, chiamata appunto “trionfale”, attraversare i luoghi più importanti del centro storico e infine salire sul Campidoglio, dove Giove, che su quel colle aveva il suo tempio più antico, riceveva un solenne sacrificio di ringraziamento.

Non tutti i generali vincitori avevano diritto al trionfo: a decretare il prestigioso riconoscimento era il senato, che lo riservava ai successi più significativi. In molti casi, poi, a contare erano anche gli umori politici del momento, che potevano essere più o meno favorevoli al generale che richiedeva il trionfo. Con il passare del tempo, inoltre, la cerimonia divenne sempre più spettacolare: alla sfilata dell’esercito vincitore si aggiunsero banchetti pubblici, celebrazioni di giochi e gare, rappresentazioni teatrali, in una festa che a volte si prolungava per più giorni e finiva per coinvolgere l’intera città.

Il corteo

Molto variegata era anche la composizione del corteo: esso comprendeva gli animali destinati al sacrificio, il bottino sottratto ai nemici – armi e metalli pregiati, opere d’arte, beni di ogni genere –, le specie tipiche delle terre conquistate, soprattutto se esotiche come elefanti o giraffe, grandi tavole dipinte con i nomi delle città sconfitte o con gli eventi decisivi della guerra, e poi ancora i prigionieri e i re dei popoli vinti, spesso tenuti in vita per anni al solo scopo di essere fatti sfilare nel trionfo e uccisi non appena terminata la cerimonia.

Il vero protagonista

Chiudevano il corteo i consoli e gli altri magistrati in carica, ma soprattutto il protagonista assoluto della cerimonia: in piedi su un carro trainato da quattro cavalli bianchi, il generale vincitore avanzava indossando una toga di porpora ricamata in oro e una corona di alloro sulla testa, con uno schiavo alle spalle che gli ripeteva senza posa, ogni volta che i cittadini in delirio lo acclamavano, «Ricordati che sei un uomo». Dietro il vincitore sfilavano i prigionieri romani liberati al termine della guerra: essi portavano sulla testa il pìleo, un berretto indossato dagli schiavi nel giorno del loro affrancamento, e da quel momento erano legati al proprio liberatore da un vincolo di gratitudine destinato a durare tutta la vita.

Infine, la lunghissima coda del corteo era rappresentata dai soldati romani al gran completo, dagli ufficiali alla truppa. Il loro ruolo era naturalmente quello di acclamare il comandante, ma in quel giorno speciale essi erano autorizzati a lanciare battute maliziose e pungenti contro di lui, mettendone alla berlina vizi e difetti: un modo anche questo per ricondurre alla comune misura umana un uomo che poteva davvero credere, per un giorno, di essere fortunato al pari di un dio.

Il trionfo in pittura Lo stile della pittura trionfale romana (ovvero delle tavole portate in corteo per celebrare le gesta militari) è stato più volte ripreso nell’arte. Andrea Mantegna, per esempio, ha dedicato nove tele ai Trionfi di Cesare (1486-1501): in questo particolare si vedono (da sinistra) portatori di vasi pieni di tesori, i buoi destinati al sacrificio e una serie di trombettieri.

CAPITOLO 2

Un lucido progetto - L’ascesa politica di Cesare

1. Un nuovo arrivato

Il nipote di Mario

Negli anni in cui Pompeo e Crasso dominavano la scena di Roma, una terza figura destinata a giocare un ruolo di primissimo piano nei decenni centrali del I secolo a.C. avviava la propria ascesa politica: Gaio Giulio Cesare (102 o 100-44 a.C.).

Per nascita, Cesare apparteneva alla più antica aristocrazia della capitale: secondo la tradizione la sua gens, quella degli Iulii, era giunta a Roma all’epoca dei re e vantava la propria discendenza nientemeno che da Enea, il mitico progenitore dei romani, attraverso suo figlio Iulo. Ma Cesare era anche nipote di Gaio Mario e questo ne faceva quasi naturalmente un esponente della parte popolare: una scelta di campo confermata nell’83 a.C., quando Cesare ancora giovanissimo sposò la figlia di Cornelio Cinna, uno dei mariani che avevano governato a Roma mentre Silla era impegnato in Oriente contro Mitridate.

Gli esordi politici

Negli anni successivi Cesare iniziò la sua carriera politica, secondo le tappe del cursus honorum fissate dalle riforme sillane: fu dapprima questore, poi edile, raggiungendo infine, nel 62 a.C., la pretura, ultimo gradino prima dell’ascesa al consolato. Non meno importante fu l’elezione a pontefice massimo, avvenuta l’anno precedente, che faceva di Cesare la massima autorità religiosa di Roma. Ma il 63 a.C. fu anche l’anno della congiura di Catilina, una trama di cui Cesare, insieme a Crasso, era a conoscenza, e forse addirittura complice. A quanto pare, un primo progetto di cospirazione prevedeva che Crasso assumesse la dittatura, seguendo il precedente di Silla, e che Cesare diventasse il suo vice. Su questi risvolti della carriera cesariana siamo però poco informati: giunto al potere, infatti, Cesare si assicurò che ogni traccia del suo passato “rivoluzionario” venisse accuratamente cancellata.

Intanto, egli non faceva mancare il suo appoggio all’altro grande protagonista del momento, Pompeo, sostenendo attivamente sia il provvedimento che gli assegnava il comando delle operazioni contro i pirati, sia quello che gli attribuiva la responsabilità della guerra mitridatica. Cesare guadagnava così una serie di credenziali che seppe far fruttare al momento opportuno, momento che giunse di fronte alla situazione di stallo seguita al ritorno di Pompeo in Italia e alla lunga diatriba che oppose il generale vittorioso al senato.

Il primo triumvirato

Per sbloccare la situazione, Cesare propose infatti a Pompeo e a Crasso un accordo segreto a tre per spartirsi le principali cariche politiche ed esercitare un controllo generale sul governo dello stato, accordo passato alla storia con il nome di “primo triumvirato”. Il triumvirato, naturalmente, non era una magistratura ufficiale e non fu mai ratificato dal senato o dalle assemblee popolari: si trattava piuttosto di un patto fra uomini di potere, che univano le forze per realizzare i rispettivi obiettivi politici, senza tenere in alcun conto le magistrature repubblicane. Nel 60 a.C. l’accordo – che fu rinsaldato anche dal matrimonio fra Pompeo e la giovane figlia di Cesare, Giulia – fu stretto e condizionò in modo decisivo il successivo decennio della storia di Roma.

Il nuovo protagonista Una statua di Gaio Giulio Cesare, che insieme a Pompeo e Crasso segnò la storia di Roma nel I secolo a.C.

Un progetto per Roma

Accanto alla ricostruzione dei primi passi di Cesare nella vita politica c’è però un altro aspetto che è importante mettere in luce. Egli si convinse molto presto del fatto che il sistema politico romano necessitasse di riforme profonde e, insieme, che quelle riforme non fossero realizzabili attraverso i normali strumenti della lotta politica. L’aristocrazia ottimate era infatti troppo compatta e potente per accettare di rinunciare, anche solo in parte, alla propria influenza e ai propri privilegi.

Per attuare le riforme era dunque necessario imporle attraverso un potere forte: alla dittatura ultra-oligarchica di Silla andava contrapposta una “dittatura democratica”, come è stata definita dallo storico Luciano Canfora. Certo, un programma del genere soddisfaceva in primo luogo il desiderio di potere di Cesare, ma era anche, a suo giudizio, l’unico mezzo per realizzare quelle trasformazioni strutturali dello stato romano che apparivano non più rinviabili. A partire dalla costituzione del primo triumvirato, tutta l’attività di Cesare fu tesa a costruire, tassello dopo tassello, questo potere.

2. Dal consolato all’inizio della guerra in Gallia

Cesare diventa console

Grazie all’appoggio di Pompeo e Crasso, Cesare fu trionfalmente eletto console per l’anno 59 a.C. e provvide immediatamente a varare una serie di provvedimenti che traducevano in atto gli accordi presi segretamente con gli altri due triumviri. Rese finalmente disponibili le terre da distribuire ai veterani di Pompeo e fece ratificare la sistemazione data da quest’ultimo alle conquiste orientali. Favorì i pubblicani – una categoria alla quale Crasso era molto legato – riducendo di un terzo il canone di appalto che dovevano versare allo stato e quindi aumentando i loro margini di profitto. Inoltre, si fece assegnare, a partire dal 58 a.C. e per una durata di cinque anni, il governo della Gallia Cisalpina, cioè dell’Italia settentrionale, e dell’Illirico, ai quali fu poi aggiunta la Gallia Narbonese, una provincia creata mezzo secolo prima e coincidente con la fascia costiera meridionale dell’attuale Francia. Il provvedimento stabiliva anche che Cesare avesse al proprio comando quattro legioni, all’incirca 20-25 000 uomini, e che potesse disporre autonomamente di fondi del tesoro pubblico senza passare dal controllo del senato.

Una scelta insolita

A Roma, il momento dell’assegnazione delle province vedeva di solito una corsa all’accaparramento dei territori più ricchi, coincidenti con le aree orientali dell’impero. Che un governatore di provincia si arricchisse estorcendo denaro ai provinciali era considerata una prassi quasi normale, che spesso serviva a compensare le ingenti spese sostenute nella campagna elettorale o nell’esercizio della magistratura nella capitale. Perciò, quando Cesare si fece attribuire l’Illirico e la Gallia, territori economicamente depressi e politicamente quasi insignificanti, la sua decisione sembrò a molti incomprensibile. Dietro quella scelta in apparenza irrazionale si nascondeva tuttavia un progetto lucidissimo. Partendo dalla Gallia Narbonese, Cesare si riprometteva infatti di lanciare un’operazione di conquista in grande stile in direzione dei vastissimi territori della Gallia centrale e settentrionale: un’area enorme, ma poco popolata e militarmente debole.

La Gallia, trampolino per il potere

Ma a che scopo avviare questa operazione, lunga e certamente costosa in termini di vite umane? In caso di vittoria, Cesare contava anzitutto di ottenere un beneficio di immagine, perché il suo prestigio politico-militare sarebbe salito alle stelle, eguagliando quello di Pompeo. Una vasta campagna bellica, inoltre, gli avrebbe dato la possibilità di costruire un rapporto molto stretto con le proprie truppe e di disporre, alla fine della guerra, di un esercito fedele e devoto, ponendosi anche da questo punto di vista su un piano di parità rispetto a Pompeo. Senza co ntare che nei territori eventualmente conquistati Cesare avrebbe avuto modo di costruire una rete di contatti e di alleanze personali da sfruttare per realizzare i suoi piani politici a Roma, ancora una volta sul modello di quanto Pompeo aveva fatto nelle aree dell’Oriente da lui assoggettate.

Coprirsi le spalle

Ottenute dunque le province che desiderava, nella primavera del 58 a.C. Cesare si accinse a lasciare Roma per raggiungere i territori della Gallia. Prima, però, volle liberarsi di due avversari politici che in sua assenza avrebbero potuto tramare contro di lui.

Il primo era Cicerone: per cominciare, questi era da sempre su posizioni vicine a quelle dell’aristocrazia ottimate (si diceva persino che fosse stato proposto anche a lui di entrare nel triumvirato, che si sarebbe così trasformato in un accordo a quattro, ma che egli avesse rifiutato); inoltre, in quanto console nell’anno della congiura di Catilina, Cicerone conosceva i retroscena di quel fallito colpo di stato, compreso il probabile coinvolgimento di Cesare, uno “scheletro nell’armadio” della carriera cesariana che egli avrebbe potuto tirar fuori al momento opportuno. Il secondo avversario era Catone, nipote del famoso Catone il Censore (vedi Unità 11), esponente inflessibile dell’aristocrazia ottimate e pertanto sostenitore di quel regime che Cesare si preparava, nel lungo periodo, a modificare in profondità.

Contro i suoi due avversari Cesare non volle tuttavia agire personalmente: la gestione della faccenda fu affidata a Publio Clodio Pulcro, un nobile passato dalla parte dei popolari e dotato di largo seguito fra gli strati più bassi della plebe urbana (aveva cambiato il suo nome da Claudio a Clodio proprio per adeguarsi alla pronuncia dialettale). Eletto tribuno della plebe nel 58 a.C., lo stesso anno in cui Cesare iniziava il proprio governo in provincia, Clodio riuscì a mandare in esilio Cicerone con l’accusa di aver messo a morte dei cittadini romani (tali erano i complici di Catilina a suo tempo fatti giustiziare dal console) senza riconoscere loro il diritto di appellarsi al popolo. L’obiettivo di liberarsi di Catone fu invece raggiunto affidandogli un incarico di governo nella lontana Cipro.

3. La campagna di Gallia

Un immenso territorio da conquistare

La Gallia era un territorio immenso, delimitato a est dal fiume Reno, che divideva i galli dai germani. I romani ne controllavano solo la fascia costiera mediterranea, conquistata alla fine del II secolo a.C.; con i popoli dell’interno esistevano rapporti commerciali e qualche isolato contatto politicodiplomatico, ma nulla di più. Sulla carta la conquista della Gallia si presentava come un compito non troppo impegnativo, soprattutto perché i galli, omogenei dal punto di vista linguistico e culturale, sul piano politico apparivano invece divisi da profonde rivalità interne. Il comando assegnato a Cesare non prevedeva alcuno sconfinamento al di fuori della Gallia Narbonese, né era pensabile che egli sferrasse il proprio attacco in modo unilaterale e senza ragioni plausibili; nell’instabile situazione delle tribù celtiche, però, a Cesare non fu difficile trovare un pretesto per scatenare la sua campagna.

Il primo atto: lo sterminio degli elvezi

Gli elvezi, stanziati nell’attuale Svizzera, sotto la pressione di alcune tribù germaniche avevano stabilito di trasferire le loro sedi più a ovest, ma per farlo dovevano transitare attraverso la provincia romana. Cesare non si lasciò sfuggire l’occasione: dapprima negò loro il permesso di passare, obbligandoli ad affrontare un percorso alternativo, molto più lungo e disagevole. Quando poi, proprio seguendo il percorso indicato, gli elvezi stavano attraversando il territorio degli edui, antichi alleati di Roma, Cesare li aggredì con il pretesto di difendere gli edui stessi. Nel corso di una sola battaglia, combattuta nell’estate del 58 a.C. a Bibracte (nell’attuale Borgogna), gli elvezi vennero praticamente sterminati. È lo stesso Cesare a fornire le cifre del genocidio: 260 000 vittime su un totale di 370 000 elvezi partiti dai loro territori. Era il primo, terrificante preannuncio dei massacri a venire.

La spedizione in Gallia Lo scontro tra un legionario romano e un gallo durante l’assalto a un villaggio nel particolare di un rilievo del I secolo a.C.

La travolgente avanzata romana

In un territorio instabile come la Gallia bastava intervenire su un piccolo tassello per alterare l’equilibrio di tutto l’insieme; così, il genocidio degli elvezi produsse una serie di reazioni a catena, delle quali Cesare approfittò per allargare sempre di più il fronte della sua avanzata. Nello stesso 58 a.C. annientò il popolo germanico dei suebi sconfiggendoli a Vesonzio (oggi Besançon). Nel 57 a.C., con la sconfitta dei belgi e di altre tribù del nord, l’esercito cesariano si affacciò invece sul canale della Manica: dopo appena due anni di guerra, la conquista dell’intera Gallia sembrava ormai a portata di mano.

Cesare si sentì dunque abbastanza sicuro da abbandonare temporaneamente l’area delle operazioni per incontrare Pompeo e Crasso in Italia. Qui gli strabilianti successi della conquista gallica stavano alterando gli equilibri politici in un senso sfavorevole a Cesare, che diveniva sempre più pericoloso agli occhi dei rivali e del senato: un chiaro segnale di ciò era stata la revoca dell’esilio a suo tempo inflitto a Cicerone; un ulteriore e preoccupante indizio era poi la candidatura al consolato avanzata per l’anno 55 a.C. da Lucio Domizio Enobarbo, il quale minacciava, in caso di elezione, di revocare a Cesare il mandato in Gallia.

Gli accordi di Lucca

A Lucca, nella primavera del 56 a.C., gli accordi fra i triumviri furono aggiornati. Anzitutto Pompeo e Crasso si sarebbero candidati al consolato per l’anno successivo e avrebbero votato una legge che prorogava di altri cinque anni il mandato di Cesare in Gallia. Nel 54 a.C., inoltre, Pompeo si sarebbe recato a governare la Spagna, territorio a lui fedelissimo sin dall’epoca della guerra contro Sertorio, mentre Crasso avrebbe ottenuto il proconsolato in Oriente, dove voleva intraprendere una campagna contro i parti, stanziati nell’area mesopotamica, oltre il confine dell’impero. Negli anni successivi tali accordi trovarono puntuale realizzazione, a dimostrazione del pieno controllo che i triumviri esercitavano sui dispositivi della vita politica romana.

Cesare in Britannia e oltre il Reno

Tornato in Gallia, nel 55 a.C. Cesare effettuò un primo sbarco esplorativo in Britannia, seguito nel 54 a.C. da una seconda e più incisiva incursione, che portò le truppe romane sino al Tamigi. Inoltre, dopo aver fatto costruire un ponte di barche, attraversò il Reno, penetrando per alcune miglia in territorio germanico. Le due operazioni erano poco significative sul piano militare (in Germania non venne conquistato alcun territorio e il tributo imposto ai britanni non venne di fatto mai riscosso), ma suscitarono a Roma grande impressione, portando alle stelle la fama di Cesare: si trattava infatti di territori lontanissimi e sconosciuti, nei quali sino ad allora nessun romano aveva messo piede.

La sottomissione dei galli

Nonostante i successi riportati, la sottomissione della Gallia si rivelò meno facile del previsto, anzi, fu a un passo dal fallire. Nell’inverno del 53-52 a.C., infatti, una grande coalizione di popoli gallici diede vita a una sollevazione generale in funzione antiromana: la novità stava nell’unità di intenti fra diverse tribù e nella presenza di un generale, Vercingetorìge, capo degli arverni, in grado di tenere testa a Cesare. La battaglia decisiva si svolse nel settembre del 52 a.C. intorno al centro fortificato di Alesia (nei pressi dell’attuale Digione), dove Vercingetorìge si era asserragliato ed era stato raggiunto da altre forze galliche, che a loro volta circondarono l’esercito romano assediante: fu la più difficile, ma anche la più risolutiva fra le vittorie di Cesare, che nonostante la posizione sfavorevole riuscì ad avere ragione di un nemico molto più numeroso. Vercingetorìge fu inviato a Roma e tenuto in carcere per ben sei anni, in attesa di sfilare durante il trionfo di Cesare, quindi venne decapitato.

Il resto fu un’operazione di polizia: gli anni 51-50 a.C. furono dedicati a spegnere gli ultimi focolai di rivolta. L’intera campagna era costata alla Gallia un milione di morti e altrettanti furono i galli ridotti in schiavitù. Si trattò di un genocidio di proporzioni inaudite, persino in una cultura abituata alla guerra come quella romana.

Lo scontro decisivo Nella foto, i resti di Alesia, la città fortificata dove fu combattuta una delle battaglie decisive della campagna di Gallia. A fianco, l’elmo di un legionario romano ritrovato negli scavi effettuati sul luogo.

IL FATTORE UMANO | Mentalità

L’incontro con il “diverso”: Cesare antropologo

Mentre conquistava la Gallia, Cesare scriveva. Prendeva appunti, dettava resoconti, raccoglieva e metteva in ordine le notizie che i suoi generali gli portavano dai quattro angoli del paese. Alla fine pubblicò la “sua” verità sulla conquista, un diario di guerra intitolato De bello Gallico (“La guerra gallica”) diviso in sette libri, uno per ogni anno di guerra, dalla campagna contro gli elvezi sino alla sconfitta di Vercingetorìge. L’opera contiene anche alcune sezioni in cui Cesare descrive la società e la cultura dei popoli con cui è venuto in contatto: germani, britanni e, naturalmente, galli.

Guerrieri tenaci Un capo gallico raffigurato in armi in una statua del I secolo a.C.

Lo stereotipo del gallo

I romani ritenevano di sapere perfettamente come erano fatti i galli. Del resto, li avevano conosciuti direttamente, e in modo drammatico, nel 390 a.C. in occasione del sacco di Roma (vedi Unità 10), e nei secoli successivi si erano ripetutamente scontrati con loro. Così avevano finito per crearsi, con il tempo, un vero e proprio stereotipo, un modello ideale di guerriero celtico caratterizzato da statura imponente e grande forza fisica, ma anche da un’eccessiva fiducia nelle proprie risorse, che lo portava a diventare stupidamente arrogante.

In battaglia, il “gallo tipo” sprecava tutte le sue energie nel primo assalto, il più violento, ma se il suo nemico resisteva alla pressione iniziale poteva poi facilmente averne ragione. I galli, inoltre, non sopportavano la fame, la sete, la fatica fisica e, soprattutto, non rispettavano alcun tipo di disciplina militare. Per di più, essi erano incapaci di fare gioco di squadra: preferivano battersi individualmente, contando sul valore dei singoli piuttosto che sulla compattezza del gruppo.

Lo sguardo da vicino

Nei capitoli che dedica a questa civiltà, Cesare fa piazza pulita dell’immagine appena descritta. Quello che gli interessa è capire come funzionino la società dei galli, la loro cultura, le loro istituzioni politiche e private, la famiglia, l’esercito, la religione. E lo fa osservando i galli direttamente nel loro ambiente: Cesare è in un certo senso il primo antropologo della cultura occidentale (insieme al grande storico greco Erodoto) che descrive una civiltà diversa dalla propria venendo personalmente a contatto con essa, in pagine piene di acume e curiosità intellettuale.

Un interesse ambivalente

È chiaro che la curiosità del generale conquistatore non è del tutto disinteressata: i popoli che suscitano la sua attenzione sono quelli contro i quali combatte, perciò conoscerli meglio gli può servire per individuarne le debolezze e sconfiggerli più facilmente. Inoltre, sottolineare la presunta arretratezza dei galli, o il carattere efferato o disumano di alcune loro usanze, giustifica l’opportunità di conquistarli, inserendoli nel “superiore” circuito della civiltà romana.

Tuttavia, Cesare si preoccupa di capire chi ha davanti, di scrutare nell’“altro” per sapere come è fatto. Non emette giudizi sommari, non pronuncia condanne, ma descrive ciò che vede e ciò che sa. Nessun conquistatore romano l’aveva fatto prima di lui, pochissimi lo faranno dopo.

Vercingetorìge raffigurato in un quadro ottocentesco mentre getta le armi ai piedi di Giulio Cesare in segno di resa.

CAPITOLO 3

L’agonia della repubblica - Cesare, il dittatore

1. Un’altra guerra civile

Le tensioni fra Cesare e Pompeo

Negli anni in cui le legioni cesariane sottomettevano la Gallia, molte cose erano mutate nel quadro politico della capitale. Il grande prestigio accumulato da Cesare nelle vittoriose campagne di guerra e la forza che gli derivava dal controllo di un esercito vasto e a lui legatissimo non potevano che impensierire una parte consistente dell’aristocrazia, che si sentiva minacciata da quella concentrazione di potere nelle mani di una sola persona; per questo settore del ceto dirigente era inevitabile cercare un punto di riferimento nell’unica altra figura dotata di un’influenza e di risorse paragonabili a quelle di Cesare, e cioè Pompeo.

Anche quest’ultimo, del resto, intravedeva l’avvicinarsi della resa dei conti con quello che rimaneva pur sempre un suo alleato nel triumvirato: lo dimostra il fatto che all’indomani del suo secondo consolato, ricoperto nel 55 a.C., Pompeo si guardò bene dal recarsi in Spagna, la provincia assegnatagli come proconsole, governandola a distanza per mezzo di legati a lui fedeli e non allontanandosi mai eccessivamente da Roma, nel timore che la situazione precipitasse e si rendesse necessario un suo immediato intervento.

Pompeo console unico

Intanto la campagna contro i parti dell’altro triumviro, Crasso, si risolse in un fallimento: nella decisiva battaglia di Carre, in Mesopotamia, combattuta nel 53 a.C., l’esercito romano subì una disastrosa sconfitta, e lo stesso Crasso cadde prigioniero e fu ucciso. Nei fatti, questo significava la fine del triumvirato. Nel 52 a.C. Clodio, che era ancora uno dei principali agenti di Cesare a Roma, venne ucciso alle porte della città da una banda armata capeggiata da Milone, un politico di pochi scrupoli che agiva per conto dell’aristocrazia ottimate e aspirava al consolato. Nella confusione che seguì al fatto, Pompeo venne nominato “console senza collega”: una formula elegante, e senza precedenti nella storia repubblicana, per evitare di usare il termine “dittatore”, che suscitava il ricordo odioso di Silla. Così, progressivamente, le posizioni degli ottimati e quelle di Pompeo si erano avvicinate, mentre quest’ultimo prendeva sempre più le distanze da Cesare.

I temibili cavalieri parti Un soldato partico (sopra) lotta con un leone in un rilievo del I secolo d.C.

La rottura

La rottura tra gli ex alleati avvenne su una questione apparentemente formale. Nel 49 a.C. scadeva il secondo quinquennio di governo provinciale e Cesare intendeva presentare la propria candidatura al consolato per l’anno seguente. I suoi avversari chiesero però che il generale si presentasse a Roma come privato cittadino, sciogliendo l’esercito e rinunciando alla protezione che gli derivava dal suo incarico. Lo stesso Pompeo finì per fare sua questa istanza, rompendo così gli indugi e schierandosi apertamente sulle posizioni dell’ala più conservatrice del senato.

Era evidente, infatti, il fine politico della richiesta: senza i suoi soldati e senza i poteri assicuratigli dalla carica di proconsole, Cesare poteva facilmente essere arrestato, processato e reso inoffensivo. Egli si mostrò comunque conciliante: dal suo quartiere invernale nei pressi di Ravenna si dichiarò disposto a sciogliere il suo esercito, a patto che lo stesso facesse Pompeo, il quale continuava a detenere il controllo delle truppe stanziate in Spagna, oltre che di due legioni che aveva acquartierato alle porte di Roma con il pretesto di volerle impiegare per una campagna contro i parti.

L’inizio della guerra civile

Prudentemente, Cesare aspettò le decisioni del senato nei pressi di Rimini, sul Rubicone, il fiume che segnava il confine settentrionale tra la Gallia Cisalpina e il territorio di Roma e che dunque, secondo le norme stabilite da Silla, non poteva essere oltrepassato dai generali romani senza prima sciogliere il proprio esercito. Lì i tribuni della plebe lo raggiunsero per informarlo che la sua richiesta era stata respinta e che loro stessi erano stati cacciati in malo modo dal senato. Contro Cesare venne persino varato un senatusconsultum ultimum, il provvedimento che concedeva pieni poteri ai consoli per agire in difesa della repubblica, il che equivaleva a dichiarare Cesare stesso un nemico dello stato. Il generale si decise allora per un atto di forza: pronunciando secondo la tradizione la frase Alea iacta est (“Il dado è tratto”), passò il fiume ed entrò con l’esercito in Italia. Era il gennaio del 49 a.C. e iniziava con quel gesto una nuova guerra civile.

Questa scelta colse di sorpresa Pompeo e gli ottimati. Così, mentre i cesariani dilagavano nella penisola, Pompeo e una parte consistente dell’aristocrazia conservatrice preferirono lasciare l’Italia e trasferirsi in Grecia, costituendo una sorta di governo in esilio. È chiaro che in quelle zone Pompeo pensava di radunare più facilmente un esercito, grazie alle eccellenti relazioni da lui intrattenute con re e vassalli orientali sin dall’epoca della guerra mitridatica. Tuttavia, la scelta di abbandonare l’Italia era politicamente rischiosa e ben presto si ritorse contro gli aristocratici che l’avevano compiuta: Roma, infatti, restava pur sempre il centro del potere legittimo, e la fuga degli avversari diede a Cesare l’opportunità di rientrare per breve tempo in città, radunare ciò che era rimasto del senato e farsi nominare console per l’anno 48 a.C., regolarizzando in tal modo la propria posizione. A quel punto era lui il legittimo detentore dell’autorità, mentre i suoi avversari erano dei ribelli privi di qualsiasi riconoscimento formale.

Varcare il Rubicone La copia medievale di un’antica carta romana con le vie dell’impero (a sinistra) mostra il Rubicone, fiume che Cesare varcò in armi provocando lo scoppio della guerra civile.

Le vittorie di Cesare e la morte di Pompeo

Nei mesi successivi Cesare si mosse con grande rapidità. Dopo una fulminea campagna, che nello stesso anno 49 a.C. annientò le truppe fedeli a Pompeo presenti in Spagna, e un brevissimo soggiorno a Roma, nei primi mesi del 48 a.C. egli aveva a sua volta già raggiunto la Grecia. Il contatto con le truppe pompeiane ebbe luogo nell’estate a Farsàlo, una località della Tessaglia, dove si svolse lo scontro decisivo. Pompeo fu sconfitto, fuggì dal campo di battaglia con un pugno di fedelissimi e si imbarcò alla volta dell’Egitto. Qui sperava di ricevere ospitalità dal re Tolomeo XIII, ma quest’ultimo lo fece assassinare, contando di ottenere la benevolenza di Cesare. Così, quando poco dopo il vincitore giunse ad Alessandria, capitale dell’Egitto, Pompeo era già morto.

Qui Cesare venne coinvolto nella contesa che opponeva i due sovrani del paese, lo stesso Tolomeo e sua sorella, la regina Cleopatra, che il padre Tolomeo XII aveva destinato congiuntamente alla successione ma che erano presto entrati in conflitto. Cesare prese le parti di quest’ultima, ma nel precipitare degli eventi rimase assediato per nove lunghi mesi, fino all’estate del 47 a.C., nell’immensa reggia di Alessandria. Alla fine prevalse la fazione legata a Cleopatra, nel frattempo divenuta amante del generale romano: dalla relazione nacque anche un figlio, detto Cesarione. Al momento di lasciare l’Egitto, Cesare impose sul trono la donna, non senza avere stanziato nel paese consistenti truppe di occupazione che dovevano evitare il ripetersi di nuovi disordini mentre lui si apprestava a proseguire la sua campagna contro i pompeiani.

Il fascino di Cleopatra Nell’immaginario collettivo, alimentato dall’arte e dal cinema, Cleopatra è simbolo di scaltrezza e fascino. Donna capace di far cadere ai suoi piedi un uomo impavido come Cesare, grazie al suo appoggio riuscì a conservare il trono. Ma la vicenda della regina restò legata a quella di Roma persino dopo la morte del generale. Cleopatra seppe sedurre anche Antonio, luogotenente di Cesare in Gallia, e cercò di far capitolare Ottaviano, futuro principe di Roma. Questi la rifiutò e la spinse a darsi la morte facendosi mordere da un aspide: si infrangeva così, con un finale degno di un film hollywoodiano, il sogno della regina di fare dell’Egitto una nuova Roma (a fianco, Cleopatra raffigurata in un bassorilievo del I secolo a.C. e interpretata da Liz Taylor in un film del 1963).

Il lungo strascico

La guerra civile non terminò con la battaglia di Farsàlo né con la morte di Pompeo: le forze superstiti rimaste fedeli a Pompeo, infatti, impegnarono Cesare ancora per anni ai quattro angoli del Mediterraneo. Erano truppe guidate dai figli del grande generale scomparso o da altri oligarchi anticesariani, decisi a vendere cara la pelle della repubblica o convinti che la partita non fosse completamente chiusa e che ci fossero ancora margini per imprevedibili colpi di scena.

Cesare intervenne così in Asia Minore, stroncando nel 47 a.C. presso Zela, nell’odierna Turchia orientale, la ribellione di Farnace, figlio di Mitridate. A Tapso, nell’attuale Tunisia, sconfisse nel 46 a.C. le truppe guidate dall’antico avversario Catone (che per non cadere nelle sue mani si uccise a Utica, da cui il soprannome “Uticense”). Si diresse poi in Spagna, dove nella primavera del 45 a.C., a Munda (presso l’attuale Cordova), si combatté la battaglia decisiva, la più difficile tra le vittorie di Cesare nella guerra civile.

2. Il breve governo di Cesare

Quale posizione istituzionale per Cesare?

Nei tre anni intercorsi tra Farsàlo e Munda, Cesare soggiornò a Roma non più di poche settimane, il tempo necessario per assumere alcuni provvedimenti urgenti, tra cui farsi conferire di anno in anno la carica di dittatore, che dava una parvenza di legalità al suo potere. Nel 45 a.C., liquidati gli ultimi residui delle forze pompeiane, sembrò finalmente aprirsi la possibilità di un’attività di governo più continuativa e duratura, ma non fu così.

Il problema più impellente, per Cesare, era quello di definire in qualche modo la propria posizione all’interno dello stato. Egli era pontefice massimo, dunque suprema autorità in campo religioso, ed era stato più volte console. Pur essendo di origini patrizie, gli era stata inoltre attribuita la potestà tribunizia, che gli garantiva l’inviolabilità personale e il diritto di veto. Nel 46 a.C. la carica di dittatore gli venne conferita per la durata di dieci anni, mentre l’anno successivo, dopo la vittoria di Munda, il senato gli riconobbe a vita il titolo di imperator, cioè di generale vittorioso, e quello di pater patriae (“padre della patria”). Queste cariche, tuttavia, non bastavano ad assicurare a Cesare un potere stabile, duraturo e soprattutto abbastanza forte da consentirgli di operare quelle riforme profonde del sistema repubblicano che egli riteneva indispensabili, ma che avrebbero suscitato certamente resistenze e opposizioni.

La dittatura a vita

Dopo alcune incertezze, la scelta definitiva, compiuta all’inizio del 44 a.C., fu quella di farsi assegnare la dittatura a vita: una scelta di tipo sillano, che però Cesare riempì di obiettivi molto diversi rispetto a quelli perseguiti quarant’anni prima dal vecchio oligarca.

Anzitutto, a Cesare era chiaro che si poteva governare contro la vecchia classe dirigente, ma non senza di essa: perciò, se Silla aveva usato lo strumento micidiale delle liste di proscrizione per liquidare i propri nemici politici, Cesare scelse piuttosto la via della clemenza nei confronti degli antichi avversari. Molti aristocratici che avevano combattuto dalla parte di Pompeo furono così non solo graziati, ma anche coinvolti nella gestione dello stato, attraverso l’attribuzione di magistrature o incarichi di prestigio. È il caso, tra i molti, di Terenzio Varrone, pompeiano di ferro ma anche uomo di eccezionale cultura, al quale Cesare affidò il compito di progettare e realizzare la prima grande biblioteca pubblica romana.

PAROLE MILIARI

Dittatura

ETIMOLOGIA

“Dittatura” (dictatura) è in latino la carica ricoperta dal dittatore, esattamente come “pretura” indica la funzione rivestita dal pretore, “censura” il compito del censore e così via. A sua volta, “dittatore” (dictator) deriva da dictare, “dire a voce alta”, “dettare”, probabilmente con riferimento al ruolo di comando esercitato dal dittatore.

LA PAROLA NELLA STORIA

Ancora in pieno Ottocento la parola “dittatura” conservava tracce dell’originario carattere di straordinarietà e temporaneità che aveva nel mondo romano. Nel 1860, per esempio, dopo aver abbattuto in Sicilia la monarchia dei Borbone, Giuseppe Garibaldi assunse la dittatura nell’isola in nome del sovrano piemontese Vittorio Emanuele II. Fra Ottocento e Novecento, nel movimento comunista alcuni leader politici, come Lenin, teorizzarono la “dittatura del proletariato”, intesa come fase temporanea di limitazione o cancellazione delle libertà democratiche che, dopo l’abbattimento della borghesia capitalista, avrebbe dovuto condurre all’instaurazione di una società senza classi. È nel Novecento che il termine ha assunto un significato esclusivamente e inequivocabilmente negativo, come riflesso dell’esperienza storica delle molte dittature fiorite in questo secolo: il fascismo, il nazismo, lo stalinismo, ma anche i molti regimi dittatoriali dell’America latina, dell’Asia e dell’Africa. Oggi la dittatura è generalmente rifiutata in Occidente, ma nel mondo vi sono ancora regimi dittatoriali, soprattutto in Africa.

NEL VOCABOLARIO

Nel lessico politico moderno la dittatura è una forma di governo caratterizzata dai seguenti elementi: la concentrazione del potere in una sola persona e/o in un partito; la soppressione delle libertà fondamentali; l’uso della violenza per reprimere ogni opposizione o forma di dissenso, da parte di individui o di movimenti e partiti.

LA PAROLA NEL MONDO ANTICO

Per i romani la dittatura è originariamente una magistratura come tutte le altre, anche se a essa si fa ricorso nei casi di emergenza, quando una situazione di grave crisi impone decisioni rapide e suggerisce di concentrare le responsabilità di comando in un unico individuo. A partire dalla fine del III secolo a.C. la dittatura conosce un lungo periodo di eclissi. A riesumarla è Silla (vedi Unità 12), l’aristocratico ultraconservatore che tra l’82 e l’80 a.C. se ne serve per imporre il suo programma di riforme, tra l’altro violando il termine massimo di sei mesi originariamente previsto per tale magistratura. È questo, dunque, il momento in cui la parola inizia ad assumere una chiara sfumatura negativa. Quarant’anni dopo è la volta di Cesare, al quale la dittatura è assegnata prima annualmente, poi per dieci anni, infine a vita; non a caso, dopo la sua morte violenta la carica verrà definitivamente abolita.

VEDERE LA PAROLA

Questa statua moderna ritrae un personaggio antico, Cincinnato (vedi Unità 10), vissuto nel V secolo a.C. e noto perché, dopo essere stato dittatore per pochi giorni e aver risolto la grave crisi militare che aveva determinato la sua nomina, rinunciò al potere e tornò a coltivare i propri campi. Ecco perché Cincinnato è rappresentato nell’atto di restituire il fascio littorio, simbolo del potere coercitivo del dittatore, mentre con la sinistra torna a impugnare l’aratro.

I provvedimenti per le province

L’esigenza di un governo dell’impero che non equivalesse al puro e semplice saccheggio delle province fu soddisfatta riducendo i margini di arbitrio dei pubblicani, gli agenti incaricati della riscossione delle tasse, e rendendo più severa la legge che puniva il reato di malgoverno. La concessione della cittadinanza agli abitanti della Gallia Cisalpina e di alcune altre province si inseriva invece in una tendenza di lungo periodo verso l’ampliamento del corpo civico, che aveva conosciuto un’accelerazione all’indomani della guerra sociale ed era destinata a svilupparsi ancora nei secoli successivi.

Le colonie e le opere pubbliche

Una vasta attività di fondazione di colonie garantì una sistemazione decorosa a decine di migliaia di proletari, gran parte dei quali affollava una Roma ormai sovrappopolata, generando problemi di ordine pubblico e spese ingenti per le distribuzioni frumentarie gratuite (che Cesare tagliò in modo drastico). Le nuove colonie furono particolarmente numerose in Gallia e in Spagna, anche nell’intento di accelerare la romanizzazione di quelle terre.

Molti proletari furono impiegati anche nella realizzazione di opere pubbliche. Con Cesare, infatti, iniziò a cambiare l’aspetto monumentale di Roma: una vasta attività edilizia interessò in particolare il Foro, luogo della massima visibilità pubblica della città. Qui il dittatore inaugurò una linea di intervento che sarà seguita da molti dei suoi successori e che produrrà come esito finale l’area dei cosiddetti Fori imperiali, di cui è tuttora possibile ammirare le splendide rovine: oltre a una nuova sede per il senato, venne avviata la realizzazione del Foro giulio, un’ampia spianata circondata su tre lati da portici, mentre il lato occidentale era chiuso dal tempio dedicato a Venere Genitrice, antenata del popolo romano ma anche capostipite della famiglia di Cesare in quanto madre di Enea. Altri progetti riguardarono la deviazione del corso del Tevere, per risolvere il problema delle frequenti esondazioni, e il risanamento delle paludi pontine, nel sud del Lazio.

I resti di Glanum, nell’odierna Provenza, centro preesistente alla conquista romana, ma che fu profondamente trasformato dagli occupanti.
Scavi archeologici hanno portato alla luce i resti di numerosi edifici pubblici (templi, teatri, terme) costruiti nel I secolo a.C., testimonianza della romanizzazione vissuta dalla Gallia dopo la conquista di Cesare.

L’ampliamento del senato e la riforma del calendario

Cesare portò i senatori da 600 a 900 e moltiplicò il numero dei magistrati: i questori, per esempio, diventarono 40. Queste rilevanti trasformazioni nascevano dal desiderio di ampliare la classe dirigente, ma soprattutto dalla consapevolezza che un impero di dimensioni mondiali non si poteva governare con un apparato amministrativo troppo esiguo, messo a punto quando Roma era ancora una piccola potenza regionale.

Il processo di razionalizzazione e di riordino dello stato investì persino il computo del tempo: nella sua veste di pontefice massimo (a cui toccava il controllo del calendario), Cesare introdusse una riforma che metteva al passo anno solare e anno civile. Il calendario giuliano, che da Giulio Cesare prese il nome, rimase in vigore per secoli.

La congiura e l’assassinio

La vasta attività cesariana di riorganizzazione dello stato venne bruscamente interrotta. Il giorno delle Idi di marzo (il 15 marzo secondo il calendario romano) del 44 a.C., appena giunto in senato, Cesare fu circondato da un gruppo di congiurati guidati da Mario Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, due ex pompeiani graziati dal dittatore, e fu ucciso con 23 pugnalate (FONTE Svetonio, Cronaca di una morte annunciata).

I congiurati agivano evidentemente a nome e per conto di quella parte della vecchia classe dirigente che non aveva mai accettato il regime di Cesare. Il senso che vollero dare alla loro azione risulta chiaro da alcune monete che Bruto fece coniare e mettere in circolazione nelle settimane successive all’attentato. Al centro del disco metallico compariva un pìleo, un tipo di berretto che veniva indossato a Roma dagli schiavi il giorno in cui ottenevano la liberazione, affiancato da due pugnali, un’allusione inequivocabile e anche piuttosto brutale alla congiura. Con l’uccisione di Cesare – questo voleva essere il significato dell’immagine – i romani erano tornati liberi, da schiavi che erano. In realtà, fu ben presto chiaro che la morte del dittatore aveva posto le premesse per una nuova, violentissima guerra civile.

Uccidere il tiranno La moneta fatta coniare da Bruto dopo l’assassinio di Cesare: su un lato, oltre al pìleo e ai pugnali compare la scritta “Idi di marzo”.

FONTE | Vita del divo Giulio, 81

Svetonio. Cronaca di una morte annunciata

Questa pagina del biografo Svetonio, attivo all’inizio del II secolo d.C., racconta i momenti che precedettero immediatamente l’assassinio di Cesare. È una storia che si ritrova in numerosi autori antichi e che sarà poi ripresa molte volte nella letteratura e nell’arte dei secoli successivi: la sua fortuna deriva probabilmente da un elemento narrativo di grande potenza, l’idea cioè che quella morte drammatica poteva essere evitata se anche uno solo degli eventi che condussero Cesare nelle mani dei suoi assassini fosse andato diversamente, se soltanto qualcosa si fosse inceppato nell’ingranaggio della congiura. In qualsiasi momento un imprevisto avrebbe potuto far saltare i piani dei cospiratori, ma come per un fatale disegno del destino tutto invece andò nel senso più sfavorevole per il dittatore.

La notte che precedette il giorno dell’assassinio, Cesare sognò di volare al di sopra delle nubi e di stringere la destra a Giove,1 mentre sua moglie Calpurnia2 vide in sogno il tetto della casa che crollava e il marito che le veniva pugnalato in grembo; inoltre all’improvviso, e senza che nessuno la toccasse, la porta della camera da letto si spalancò. Per via di questi presagi, e anche perché si sentiva poco bene, Cesare esitò a lungo se restare a casa e rimandare ad altra occasione le questioni che aveva stabilito di trattare in Senato; alla fine fu Decimo Bruto3 a convincerlo, dicendogli che non poteva deludere i senatori che già da tempo e in gran numero lo stavano aspettando.

Uscì di casa verso le undici; per strada incontrò un tale che gli porse uno scritto contenente rivelazioni sulla congiura, ma Cesare lo accluse agli altri fogli che teneva nella sinistra, ripromettendosi di leggerlo successivamente.

Poi offrì in sacrificio molte vittime, senza peraltro riuscire ad ottenere presagi favorevoli; allora, ignorando ogni timore religioso, entrò ugualmente nella curia4 facendosi gioco di Spurinna5 e accusandolo di essere un bugiardo, perché le Idi di marzo6 erano arrivate senza che lui subisse alcun danno; e quello gli rispose che erano sì arrivate, ma non erano ancora passate.

Svetonio, Vita del divo Giulio, 81 (trad. di M. Lentano)

UNITÀ 13 | L’età di Cesare

SINTESI

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CAPITOLO 1

Sotto il segno di Silla

L’ascesa di Pompeo e Crasso Negli anni che seguirono la morte di Silla (78 a.C.), la scena politica romana conobbe l’affermazione di due dei suoi più fedeli seguaci: Gneo Pompeo e Marco Licinio Crasso. Nel 71 a.C. Pompeo pose fine in Spagna alla ribellione di Quinto Sertorio, un ex ufficiale di Mario. Nello stesso anno Crasso domò la rivolta servile guidata da Spartaco che si era estesa a tutta la penisola. Grazie ai successi militari, Pompeo e Crasso furono eletti consoli nel 70 a.C. Per guadagnare consensi, i due modificarono la costituzione di Silla, restituendo a tribuni e cavalieri le loro prerogative.

Le imprese di Pompeo Nel 67 a.C. il senato conferì a Pompeo un comando straordinario per liberare il Mediterraneo dalla pirateria. Sgominati i pirati, l’anno successivo Pompeo condusse una guerra contro Mitridate VI, che aveva invaso diversi territori in Asia Minore. Vinto definitivamente il re del Ponto (63 a.C.), Pompeo riorganizzò i domini romani in Oriente creando alcune province (Siria e Cilicia) e spingendosi fino in Palestina.

La congiura di Catilina Nel frattempo Roma era stata sconvolta dalla congiura ordita da Lucio Sergio Catilina, un nobile caduto in miseria che intendeva impadronirsi dello stato con la forza. Il piano, denunciato dalle orazioni di Cicerone, era fallito, ma il vasto consenso ottenuto da Catilina aveva rivelato il disagio dei ceti popolari, che non si sentivano rappresentati dalla classe al potere.

Il senato contro Pompeo Rientrato in Italia, Pompeo sciolse il proprio esercito, ma il senato, temendone l’ascesa, ne osteggiò le richieste: l’assegnazione di terre ai veterani e la ratifica dei provvedimenti all’origine delle province e della vasta rete di alleanze da lui create in Oriente.

CAPITOLO 2

Un lucido progetto

Cesare e il primo triumvirato Negli stessi anni una nuova figura si stava affacciando sulla scena politica romana: Gaio Giulio Cesare, esponente della più antica aristocrazia capitolina, che si pose a capo dei populares con l’obiettivo di attuare una radicale riforma dello stato.

Nel 60 a.C. Cesare propose a Pompeo e Crasso di stipulare un accordo segreto per spartirsi il potere (primo triumvirato). Con il loro appoggio, prima fu eletto console (59 a.C.) e poi ottenne il proconsolato della Gallia Cisalpina, dell’Illirico e della Gallia Narbonese. Nei piani di Cesare, la conquista dell’intera Gallia gli avrebbe fatto guadagnare una posizione di forza, accentuata dalla disponibilità di un esercito personale.

La conquista della Gallia Con il pretesto di difendere gli edui, alleati di Roma, le legioni di Cesare entrarono in Gallia sconfiggendo elvezi, suebi e belgi (58-57 a.C.). Nel 56 a.C. Cesare si recò a Lucca per ridefinire gli accordi del triumvirato. Fu così che nel 54 a.C. Pompeo assunse il proconsolato in Spagna, mentre Crasso divenne proconsole in Oriente e partì per una campagna contro i parti. Fattosi rinnovare il mandato in Gallia, Cesare sbarcò in Britannia e attraversò il Reno (55-54 a.C.), ma dovette poi affrontare la rivolta di una grande coalizione di popoli gallici (53-52 a.C.) guidata da Vercingetorìge, capo degli arverni, che sconfisse ad Alesia. Tra il 51 e il 50 a.C. l’intera Gallia fu sottomessa.

CAPITOLO 3

L’agonia della repubblica

Cesare contro Pompeo Nel 53 a.C. la sconfitta e l’uccisione di Crasso durante la campagna contro i parti decretò la fine del primo triumvirato. Allarmata dal crescente prestigio di Cesare, una parte dell’aristocrazia appoggiò Pompeo fino alla sua nomina a console unico nel 52 a.C. Reduce dalla conquista della Gallia, Cesare avrebbe dovuto sciogliere l’esercito per rientrare in Italia, ma per tutelare la propria incolumità pretese che Pompeo facesse lo stesso. Al suo rifiuto, le legioni di Cesare attraversarono il fiume Rubicone (49 a.C.), al confine con il territorio di Roma. Ebbe inizio così una nuova guerra civile.

La guerra civile Pompeo riparò in Grecia, ma Cesare lo raggiunse e lo sconfisse a Farsàlo (48 a.C.). Rifugiatosi ad Alessandria d’Egitto, Pompeo fu ucciso dal sovrano Tolomeo XIII, che intendeva ingraziarsi Cesare. Quest’ultimo fu coinvolto nella lotta dinastica tra Tolomeo e la sorella Cleopatra (48-47 a.C.), che insediò sul trono. L’ultima resistenza pompeiana fu sbaragliata a Munda (45 a.C.).

Cesare dittatore Forte dei suoi trionfi, Cesare riuscì a farsi nominare dittatore per dieci anni e poi, nel 44 a.C., dittatore a vita. Coinvolgendo gli ex pompeiani, egli cercò di attuare una serie di provvedimenti per riformare lo stato: migliorò l’amministrazione delle province; favorì la loro romanizzazione estendendo ad alcune di esse la cittadinanza romana; diede impulso alle opere pubbliche e ampliò il ceto dirigente. La sua azione fu bruscamente interrotta dalla morte violenta (44 a.C.) in seguito a una congiura ordita dai suoi oppositori.

UNITÀ 13 | L’età di Cesare

VERIFICA

CONOSCENZE E ABILITÀ

1. COLLOCARE EVENTI E FENOMENI NEL TEMPO

Completa le seguenti tabelle inserendo i dati corretti. Riordina poi gli eventi in sequenza cronologica.

L’ascesa di Pompeo, Crasso e Cesare
evento data
Pompeo vince la guerra contro Sertorio
63 a.C.
56 a.C.
Pompeo sconfigge Mitridate VI
60 a.C.
71 a.C.

2. COLLOCARE EVENTI E FENOMENI NELLO SPAZIO

Nel 49 a.C. la rivalità tra Cesare, rientrato vincitore dalla Gallia, e Pompeo culminò nello scoppio della guerra civile. Osserva la carta in cui sono indicati gli spostamenti delle truppe di Cesare e svolgi le attività indicate.

La conquista della Gallia e la seconda guerra civile
evento data
53-52 a.C.
Cesare sconfigge elvezi, suebi e belgi
pacificazione della Gallia
52 a.C.
48 a.C.
sconfitta finale dei pompeiani
49 a.C.
Cesare sconfigge i pompeiani in Spagna
morte di Pompeo in Egitto
  1. Colloca sulla carta i nomi dei luoghi teatro dei principali avvenimenti che ebbero come protagonisti i due generali.
    • Munda
    • Alesia
    • Farsàlo
    • Rubicone
    • Lerida

  2. Solo un luogo non riguarda il confronto tra Cesare e Pompeo: quale? A quale evento fa invece riferimento?
  3. Colora sulla carta le conquiste di Cesare.
  4. Indica con frecce di un secondo colore gli spostamenti delle truppe di Pompeo. Dove morì il generale? Dove avvenne la sconfitta decisiva dei pompeiani?
  5. Il conflitto tra Pompeo e Cesare coinvolse l’intero bacino del Mediterraneo: di che cosa è testimonianza tale fatto?

3. COGLIERE NESSI GEOSTORICI

In questa unità abbiamo parlato della conquista della Gallia da parte di Cesare.

  1. Quale stato europeo occupa oggi il territorio dell’antica Gallia?
  2. Quale fiume a oriente della Gallia fu varcato da Cesare, per quanto solo temporaneamente?
  3. Perché il confine naturale rappresentato da questo fiume ha avuto grande importanza nella storia europea?

4. CONOSCERE E UTILIZZARE IL LESSICO STORICO

Spiega che cosa si intende con il termine “triumvirato” contestualizzandolo nell’età di Cesare (max 10 righe).

5. COGLIERE NESSI E RELAZIONI

Delinea l’evoluzione del rapporto tra Pompeo e l’oligarchia senatoria (max 15 righe).

6. COGLIERE NESSI E RELAZIONI

Illustra la strategia adottata da Cesare per realizzare il suo progetto politico di un radicale rinnovamento dello stato romano (max 20 righe).

Puoi aiutarti nello svolgimento seguendo questa scaletta:

  1. spiega brevemente in che cosa consisteva il progetto politico di Cesare;
  2. illustra le fasi della sua alleanza con Pompeo;
  3. indica il reale obiettivo di Cesare nell’affrontare la conquista della Gallia centro-settentrionale;
  4. sintetizza la strategia di governo di Cesare dittatore.

COMPETENZE

7. ANALIZZARE UNA FONTE

Nel De bello Gallico – il suo scritto più famoso – Cesare descrive i popoli contro cui combatte nella campagna di Gallia, ma non si limita a fornire notizie sulla consistenza degli eserciti o a elencare i nomi dei generali: ogni volta che può schizza un quadro della loro cultura, con particolare attenzione all’economia, alla struttura familiare, al tipo di educazione. Leggi il testo e rispondi alle domande.

Economia e cultura degli svevi
Gli svevi,1 tra tutti i germani, sono il popolo più numeroso ed agguerrito in assoluto. Si dice che siano formati da cento tribù: ognuna fornisce annualmente mille soldati, che vengono portati a combattere fuori dai loro territori contro i popoli vicini. Chi è rimasto a casa, provvede a mantenere sé e gli altri; l’anno seguente si avvicendano: quest’ultimi vanno a combattere, i primi rimangono in patria. Così non tralasciano né l’agricoltura, né la teoria e la pratica delle armi. E non hanno terreni privati o divisi, nessuno può rimanere più di un anno nello stesso luogo per praticare l’agricoltura. Si nutrono poco di frumento, vivono soprattutto di latte e carne ovina, praticano molto la caccia. Il tipo di alimentazione, l’esercizio quotidiano e la vita libera che conducono (fin da piccoli, infatti, non sono sottoposti ad alcun dovere o disciplina e non fanno assolutamente nulla contro la propria volontà) accrescono le loro forze e li rendono uomini dal fisico imponente. Sono abituati a lavarsi nei fiumi e a portare come vestito, in quelle regioni freddissime, solo delle pelli che, piccole come sono, lasciano scoperta gran parte del corpo.

Cesare, De bello Gallico, IV, 1 (trad. di A. Barabino)

IL FATTORE UMANO | Immagini

La coppa di Duride

Duride, Kỳlix a figure rosse con scene di scuola, V secolo a.C., Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung, visione da sotto.

Educazione e democrazia nell’Atene del V secolo a.C.

La rivoluzione del sistema scolastico ateniese

L’immagine raffigura una coppa da vino (kỳlix) firmata dal ceramista attico Duride, molto attivo tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. La coppa è decorata all’esterno e nel tondo interno – fortemente danneggiato – con scene di scuola che testimoniano quella che può essere considerata una vera e propria rivoluzione nel sistema educativo ateniese. Agli inizi del V secolo a.C., infatti, l’insegnamento delle lettere si era guadagnato un posto di spicco accanto alle due discipline che sino ad allora avevano costituito le fondamenta dell’educazione: l’addestramento fisico e l’apprendimento della musica. Ma che cosa stava alla base di questa rivoluzione?

Primi passi per la democrazia e l’alfabetizzazione

La scuola è sempre uno specchio della società, di cui riflette i valori fondamentali, quelli che ogni cultura intende trasmettere alle future generazioni, e il mondo greco da questo punto di vista non faceva eccezione. Ora, nella società ateniese del VI e più ancora del V secolo a.C. la scrittura acquistò un’importanza crescente, legata a doppio filo al processo di democratizzazione che la polis attica venne conoscendo in quell’epoca.

Così, per esempio, le riforme di Solone, nel 594 a.C., prevedevano tra l’altro la pubblicazione delle leggi in forma scritta su tavole che erano esposte nell’agorà, cuore civile e politico di Atene, affinché almeno virtualmente tutti potessero prendere conoscenza dei propri diritti; allo stesso modo, uno dei provvedimenti attribuiti a Clistene, nell’ultimo scorcio del VI secolo a.C., prevedeva che i cittadini scrivessero su un coccio il nome della persona che intendevano mandare in esilio, ritenendola un pericolo per la democrazia.

In una situazione come questa, anche il sistema educativo si adeguò rapidamente alle nuove esigenze dando largo spazio all’insegnamento della scrittura e della lettura, che costituivano altrettanti strumenti essenziali di partecipazione alla vita politica dei futuri cittadini.

Ma come si svolgeva concretamente l’insegnamento delle lettere (e quello della musica, a esse strettamente legato)? Facciamocene un’idea più precisa analizzando nel dettaglio i lati esterni della coppa di Duride.

L’insegnamento delle lettere

La musiké

IL FATTORE UMANO | Cittadinanza

Che cosa significa essere cittadini?

Si definisce “cittadinanza” l’appartenenza di un individuo a uno stato. Essa comporta diritti e doveri, regolati da leggi precise. Ma come devono essere tali norme? A quale fine devono mirare? A queste domande avevano già risposto, in modi diversi, i greci e i romani.

Cittadini ad Atene

Ad Atene i cittadini non coincidevano affatto con i residenti: dal corpo civico erano infatti esclusi i minori, gli schiavi, le donne e i meteci (gli stranieri che avevano il diritto di abitare in città, per ragioni di commercio, ma non potevano partecipare alla vita politica e pagavano una tassa di soggiorno).

Dalla metà del V secolo a.C. questo circoscritto corpo civico si ridusse ulteriormente: durante l’età di Pericle, la condizione di cittadino fu riservata ai soli che avessero sia la madre sia il padre ateniesi. Una restrizione apparentemente paradossale nell’epoca di massimo sviluppo del sistema democratico, ma che aveva una sua logica profonda: poiché essere cittadini significava godere di una serie di privilegi, tra cui quello di ricevere un compenso in denaro per la partecipazione all’assemblea e alle cariche pubbliche, tale condizione andava riservata a una fascia circoscritta di ateniesi “purosangue”.

Cittadinanza etnica o politica?

Ad Atene, dunque, cittadini si nasceva, ma non si poteva diventare. È vero che talora la cittadinanza venne concessa anche a non ateniesi, ma questo accadeva o per singoli individui particolarmente meritevoli oppure in situazioni critiche, per esempio durante una guerra.

Molto diversa era la situazione a Roma. I romani praticarono sin dalle proprie origini una concezione inclusiva della cittadinanza: già il fondatore Romolo, secondo il mito, avrebbe accolto in città i sabini. Da allora in avanti la cittadinanza venne estesa progressivamente a fasce sempre più ampie di popolazioni sottomesse. Il processo si protrasse per secoli ed ebbe il proprio compimento nel 212 d.C., quando l’imperatore Caracalla riconobbe la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero. In una parola, per i romani cittadini si poteva diventare.

Estendere la cittadinanza: un problema attuale

Il processo di estensione della cittadinanza, che attraversa l’intera storia di Roma, non implica che tutti fossero d’accordo su questa scelta: essa era al contrario oggetto di polemiche e contrasti nella classe dirigente. Chi era favorevole sosteneva che la concessione della cittadinanza avrebbe consentito di integrare popoli diversi, garantendo al dominio di Roma maggiore stabilità; i contrari sottolineavano i rischi di un eccessivo ampliamento della sfera dei diritti e la possibile “corruzione” che i popoli stranieri avrebbero portato nella vita romana. Era in gioco, dunque, un’alternativa: considerare lo straniero come un individuo irrimediabilmente “diverso”, il cui arrivo avrebbe minacciato la cultura e l’identità del paese ospitante, oppure vederlo come un potenziale alleato, che avrebbe contribuito alla crescita del paese e alla sua stabilità sociale e politica.

Insomma, si può utilizzare la cittadinanza come un privilegio da riservare a chi già lo possiede per nascita oppure come un mezzo di inclusione nel corpo civico.

Di fronte a questa alternativa si trovano tutti i paesi che oggi fronteggiano consistenti fenomeni di immigrazione, compreso il nostro, chiamati a decidere se e in che misura estendere a chi proviene dall’esterno i diritti legati alla cittadinanza.

Diventare cittadini Un attestato inciso su lastre di bronzo con cui si conferiva a un soldato di origini non romane la cittadinanza per meriti militari.

DIBATTITO STORIOGRAFICO

Chi era Giulio Cesare?

Una personalità complessa

Poche personalità del mondo antico hanno affascinato e diviso i contemporanei e i posteri quanto Giulio Cesare: conquistatore spietato e raffinato intellettuale, rampollo di una nobile famiglia aristocratica ma persuaso che il tempo della repubblica senatoria fosse ormai finito, adorato da soldati pronti a qualsiasi eroismo pur di compiacerlo e detestato dagli avversari che aveva graziato e che si accordarono clandestinamente per ucciderlo, lucidissimo e visionario, gelido e passionale, Cesare era tutte queste cose e molte altre ancora.

Penetrare nelle sue intenzioni ultime, nei piani che aveva concepito prima di essere assassinato nella congiura del 44 a.C., è una tentazione alla quale pochi si sono sottratti nel corso dei secoli: anche perché la sua scomparsa prematura lascia campo aperto alle ipotesi su quello che nelle sue vesti di dittatore avrebbe fatto se la sorte gli avesse concesso il tempo di realizzarlo.

Valutazioni a confronto

Gli storici moderni sono pervenuti a valutazioni anche molto diverse in merito all’azione politica di Cesare: dalla condanna senza appello per il distruttore della libertà repubblicana, guidato dalla propria sete di potere, sino all’ammirazione incondizionata per l’uomo che aveva intuito la direzione del processo storico e operato per anticiparla, con tutte le sfumature intermedie tra queste due posizioni estreme. I passi che proponiamo sono esempi di come, a oltre due millenni di distanza dalla sua morte, Cesare continui a essere un uomo tanto intrigante quanto controverso. Il fatto che entrambi si debbano a storici tedeschi non è casuale: nel Novecento la figura di Cesare ha ricevuto una particolare attenzione proprio in Germania, un paese nella cui lingua “imperatore” si dice ancora Kaiser, termine derivato proprio dal nome di Cesare, e che al problema della fascinazione esercitata da uomini carismatici giunti al vertice del potere è stato, per comprensibili ragioni storiche, particolarmente sensibile.

TEMI DI GEOGRAFIA

AMBIENTE

1. Il debito ecologico

L’impronta ecologica

L’attività dell’uomo, per la sua intensità e per il raggio d’azione sempre più vasto, determina sul sistema Terra mutamenti paragonabili a quelli provocati dalle forze della natura. L’incremento demografico (la popolazione mondiale ha superato la soglia dei 7 miliardi) e la produzione su larga scala caratteristica delle moderne società industriali hanno inflitto all’ecosistema danni tali da provocare una vera e propria crisi ambientale. Una crisi dovuta all’eccessivo sfruttamento delle risorse del pianeta, siano esse rinnovabili (acqua, suolo) o non rinnovabili (minerali, combustibili fossili).

Per stimare la capacità demografica del nostro pianeta è stato formulato il concetto di impronta ecologica (ecological footprint). L’impronta ecologica misura la superficie biologicamente produttiva (marina e terrestre) necessaria a ogni individuo per soddisfare le sue esigenze di consumo e smaltimento rifiuti. L’impronta viene espressa in ettari/pro capite di superficie naturale produttiva utilizzati per soddisfare i nostri consumi. L’impronta ecologica, quindi, pone in relazione lo “stile di vita” e la “quantità di natura” necessaria a sostenerlo: maggiore è il valore dell’impronta ecologica, maggiore è l’impatto dell’uomo sull’ambiente.

Biocapacità e debito ecologico

Strettamente legata all’impronta ecologica è la biocapacità (o capacità biologica). Essa indica la quantità delle risorse biologicamente utili – in termini di produttività e assorbimento dei rifiuti – che un territorio può offrire a ciascun abitante. Ponendo in relazione l’impronta ecologica e la biocapacità, è possibile dedurre se il livello dei consumi di una data realtà è sostenibile o se, invece, si sta accumulando un debito ecologico, cioè se si consumano più risorse di quante il territorio è in grado di fornirne. Per esempio, l’Italia ha un’impronta ecologica di 4,4 ettari/pro capite e una biocapacità di 1,3: ha cioè accumulato un debito ecologico di 3,1 ettari/pro capite (così calcolato: 4,4 – 1,3 = 3,1). Oggi l’impronta ecologica dell’umanità – tra consumo di acqua, sfruttamento del suolo, delle risorse forestali e delle specie animali, perlopiù nei paesi sviluppati – eccede di oltre il 50% la capacità di rinnovamento e assorbimento della natura. Insomma, continuando così, ben presto le risorse del pianeta potrebbero non bastare più.

2. Emergenze planetarie

Il degrado del suolo

L’impatto che l’attività dell’uomo ha sul pianeta è un fenomeno complesso, responsabile di molteplici emergenze ambientali. La più grave è costituita dal riscaldamento climatico (vedi il tema CLIMA), cui se ne aggiungono altre che a questa s’intrecciano, minacciando l’equilibrio del pianeta. Tra di esse, oltre all’impoverimento delle risorse idriche e alla carenza di quelle energetiche (vedi il tema RISORSE), va annoverato il fenomeno della deforestazione, o disboscamento.

Praticato fin dal Neolitico, il disboscamento ha conosciuto una poderosa impennata negli ultimi decenni, soprattutto ai danni delle foreste tropicali, che costituiscono la metà del patrimonio forestale mondiale. Si disbosca per ottenere nuove aree destinate all’agricoltura, ai pascoli, agli insediamenti urbani, ai bacini idroelettrici, alle miniere e alle vie di comunicazione, ma anche per produrre legname, impiegato come combustibile o destinato all’esportazione. Questo sfruttamento selvaggio provoca, oltre alla riduzione delle risorse forestali, l’impoverimento del suolo e il dissesto idrogeologico, ossia la degradazione del suolo causata da frane, alluvioni o semplicemente dall’erosione che, pur esistendo anche in natura, è dovuta per l’80% all’attività umana.

Oltre che dalla deforestazione, il degrado del suolo è alimentato dalla pratica intensiva dell’allevamento, dall’uso massiccio di fertilizzanti chimici nelle monocolture, dallo sfruttamento eccessivo delle risorse idriche nonché dalla cementificazione delle aree urbane. Tale situazione è particolarmente grave nelle zone aride e semiaride, dove talvolta l’erosione è responsabile della desertificazione, che secondo la Banca mondiale riguarda oggi 250 milioni di persone.

La desertificazione, ovvero la trasformazione, spesso causata dalle attività umane, di aree di terreno fertile in aree desertiche, minaccia vaste aree del pianeta, con danni enormi per le comunità che vi abitano.

La perdita di biodiversità

Al degrado dell’ambiente è legata la perdita di biodiversità, ossia del complesso di specie animali e vegetali che popolano la biosfera, stimate tra 5 e 50 milioni, di cui finora solo 1,4 milioni note e censite (la metà nelle foreste tropicali). L’estinzione biologica è un fatto naturale: nel tempo, molte specie sono comparse e si sono estinte (una specie sopravvive circa 1 milione di anni). Tuttavia, tale fenomeno negli ultimi secoli ha subito una progressiva accelerazione, imputabile all’intervento umano. Il crescente consumo di risorse e la colonizzazione di spazi sempre più ampi distruggono l’habitat delle altre specie e frammentano gli ecosistemi provocando, insieme alla perdita di biodiversità, il degrado del nostro stesso ambiente di vita. La biodiversità, infatti, contribuisce a conservare quegli equilibri ecologici che permettono a un territorio di resistere a mutamenti, attacchi, catastrofi. Un particolare esempio di perdita di biodiversità è il depauperamento delle risorse ittiche dovuto all’overfishing, cioè a una “pesca eccessiva” rispetto al ritmo riproduttivo di specie la cui sopravvivenza è messa così a rischio.

L’inquinamento di aria, acqua e suolo

L’equilibrio degli ecosistemi è messo in pericolo anche dalle emissioni inquinanti, cioè gli “scarti” di tutti i prodotti delle attività umane, che modificano le caratteristiche dei tre elementi fondamentali per la vita: l’aria, l’acqua e il suolo.

L’inquinamento è un fenomeno complesso perché questi tre elementi sono strettamente collegati e, quindi, una sostanza inquinante passa dall’uno all’altro, non risparmiando alcun essere vivente, uomo compreso. Solo per citare alcuni esempi, l’inquinamento dell’aria è responsabile di molte malattie respiratorie, ma anche di fenomeni come le piogge acide che distruggono foreste e colture; l’inquinamento delle acque danneggia la flora e la fauna acquatica e può provocare l’eutrofizzazione, cioè la moltiplicazione abnorme di alghe che, decomponendosi, sottraggono ossigeno alle altre specie; le sostanze nocive possono inoltre infiltrarsi nel terreno, causando la contaminazione del suolo e delle falde acquifere.

Le sostanze chimiche immesse nell’aria, nelle acque e nel suolo dai processi industriali causano danni gravi alla salute delle persone: spesso, anche in concentrazioni molto basse, queste sostanze possono interferire negativamente a vari livelli con il corpo umano; inoltre, gran parte di queste sostanze chimiche si degrada lentamente e il costo economico di disinquinamento delle zone contaminate è elevatissimo.

Lo smaltimento dei rifiuti tossici

In generale, sono i paesi in via di sviluppo quelli più interessati ai problemi dell’inquinamento, sia perché non hanno le risorse economiche per combatterli, sia perché uno dei fenomeni più vistosi della globalizzazione è la delocalizzazione dal Nord al Sud del mondo di fabbriche inquinanti e di rifiuti tossici. Per esempio, le coste del Bangladesh e dell’India sono una sorta di “cantiere mondiale” per la demolizione delle navi, officine all’aria aperta in cui materiali nocivi come l’amianto sono dispersi nell’ambiente senza alcun controllo. Ugualmente dannosi sono i milioni di tonnellate di rifiuti elettronici (telefoni cellulari, computer, fotocamere digitali ecc.) smaltiti illegalmente nei paesi in via di sviluppo, che contengono sostanze tossiche come piombo, mercurio, cadmio, arsenico.

Il riciclaggio dei rifiuti previene lo spreco di materiali potenzialmente utili. In Cina ogni giorno migliaia di “raccoglitori di bottiglie” vanno a caccia di bottiglie di plastica usate per destinarle al riciclo: un business che vale miliardi di dollari.

3. Lo sviluppo sostenibile

Uno sviluppo per le future generazioni

Gli odierni modelli di sviluppo economico sono incompatibili con la conservazione degli equilibri naturali. Se non si vuole compromettere la possibilità delle future generazioni di continuare a svilupparsi, occorre cambiare gli attuali sistemi a forte impatto ambientale e adottare un modello di sviluppo sostenibile basato sulla salvaguardia del patrimonio e delle riserve naturali (che sono esauribili).

Ecco un breve elenco di alcune delle misure che sarebbe necessario adottare in tempi brevi:

  • sostituire progressivamente il petrolio con fonti energetiche pulite;
  • incentivare la produzione e l’acquisto di auto elettriche al posto di quelle a benzina;
  • promuovere il riciclaggio dei rifiuti;
  • elaborare piani di riforestazione;
  • sostenere un’agricoltura meno legata all’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici;
  • sostenere un turismo più rispettoso degli ecosistemi;
  • imporre che nelle industrie siano predisposti dispositivi antinquinanti.

Verso l’eco-economia

Si tratta di misure di carattere generale, che tuttavia investono la sfera privata, sollecitando profondi cambiamenti negli stili di vita e nell’impatto che ciascuno di noi ha sull’ambiente. Queste scelte non comportano necessariamente un peggioramento della qualità della vita: per esempio, consumare meno carne o utilizzare maggiormente i mezzi pubblici e la bicicletta al posto dell’auto non può che giovare alla nostra salute. L’accresciuta sensibilità ambientale fra i cittadini fa ben sperare, anche se è evidente che per affrontare un problema così complesso i comportamenti individuali “virtuosi” sono importanti, ma insufficienti. Occorre che si attivino i governi, le grandi organizzazioni internazionali, le multinazionali, insomma chi ha il potere di cambiare radicalmente le cose. Studiosi, economisti, associazioni ambientaliste da tempo propongono soluzioni – in molti casi puntando anche sull’innovazione tecnologica – finalizzate a sviluppare una nuova eco-economia che, a differenza dell’economia tradizionale, soddisfi le necessità umane senza distruggere le risorse naturali. Rendere compatibile la crescita economica con la conservazione dell’ambiente, cioè arrivare a uno sviluppo sostenibile, è la grande sfida del XXI secolo.

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UN CASO

Il dissesto idrogeologico in Italia

L’Italia è un paese fragile dal punto di vista ambientale, sia per ragioni naturali sia, soprattutto, per l’incuria dei suoi abitanti. Le ricorrenti catastrofi ambientali – frane, incendi, alluvioni – ce lo ricordano ogni anno, imponendoci una riflessione sui possibili investimenti per la prevenzione e su un impiego del suolo che metta al primo posto la sicurezza della collettività.

Un paese vulnerabile

La vulnerabilità del territorio italiano dipende, innanzitutto, dalla sua conformazione geologica. Si tratta, infatti, di un territorio geologicamente giovane e quindi instabile, con quattro vulcani attivi, frequenti terremoti, montagne e colline in gran parte esposte all’erosione.

L’alto grado naturale di vulnerabilità ambientale, però, è accentuato da molti fattori di origine antropica, come l’intenso popolamento, l’eccessiva cementificazione del territorio, la mancanza di organici piani antinquinamento, lo scarso contrasto all’illegalità ambientale e, non ultima, l’abitudine a intervenire solo in caso di emergenza. È stato calcolato che dal 1950 a oggi sono stati spesi oltre 215 miliardi di euro per rincorrere le emergenze: risorse servite per spalare macerie, ricostruire nelle stesse aree a rischio, realizzare nuove “cementificazioni” di fiumi e torrenti, cioè per rimediare (spesso senza successo) ai danni avvenuti e non per affrontare alla radice le cause antropiche dei disastri.

Lo straripamento del Tevere, nel 2014, ha causato frane, voragini e alluvioni. Le città hanno “aggredito” col cemento fiumi e torrenti e ora si trovano impreparate ad affrontare eventi estremi legati a forti piogge.

Il dissesto idrogeologico: frane e alluvioni

Circa 1/6 del territorio italiano è “ad alto grado d’instabilità geomorfologica” e quasi la metà presenta condizioni “poco favorevoli alla stabilità”. L’Italia è caratterizzata da versanti montuosi e collinari soggetti a erosione perché costituiti da rocce tenere e poco resistenti (come le argille) e dalla scarsa permeabilità dei suoli, per cui il terreno assorbe le acque con difficoltà.

L’uomo ha contribuito ad aggravare la situazione accelerando l’erosione con i disboscamenti, l’abbandono delle coltivazioni nelle aree non pianeggianti, la costruzione di case e strade su pendii già instabili. Il rischio di frane e alluvioni è quindi molto alto in gran parte del territorio.

Ogni anno le frane sono circa 15 000 e causano danni per decine di milioni di euro. In alcuni casi le frane hanno contribuito a provocare alluvioni catastrofiche. Dal 1951 si sono avute in Italia oltre 300 alluvioni gravi, con centinaia di vittime, migliaia di feriti e più di 300 000 senzatetto. Le regioni più colpite sono state il Veneto, l’Emilia Romagna, la Toscana, il Piemonte e la Liguria.

Le alluvioni, oltre che dall’abbondanza delle piogge, sono causate dalle caratteristiche dei corsi d’acqua, cioè dai caratteri geomorfologici di fiumi e torrenti che scendono impetuosi dalle montagne, ma anche dagli interventi umani degli ultimi decenni. In questo senso, si è rivelata dissennata la diffusa cementificazione degli alvei (letti) e delle rive dei fiumi, o addirittura la loro copertura, per costruirvi sopra case e strade. L’acqua, invece di defluire regolarmente, s’incanala in una sorta di autostrada e acquista una velocità e una potenza devastanti, esondando in caso di piogge abbondanti. Inoltre, se a monte il territorio non è più coltivato (ed è anzi spesso edificato), i suoli si impermeabilizzano e le acque piovane non vengono più assorbite dal terreno, ma scorrono a valle velocemente.

Comuni italiani a rischio idrogeologico (per regione, 2012)
Regione % di comuni a rischio
Piemonte 86,5%
Valle d’Aosta 100,0%
Lombardia 59,1%
Trentino-Alto Adige 31,5%
Veneto 27,7%
Friuli-Venezia Giulia 62,4%
Liguria 80,0%
Emilia-Romagna 88,8%
Toscana 97,6%
Umbria 100,0%
Marche 98,7%
Lazio 96,8%
Abruzzo 58,4%
Molise 89,0%
Campania 86,0%
Puglia 18,6%
Basilicata 93,9%
Calabria 100,0%
Sicilia 69,7%
Sardegna 11,1%
ITALIA 68,8%

Quasi il 70% dei comuni italiani è a rischio idrogeologico. Più della metà sono localizzati nelle regioni settentrionali, circa il 30% in quelle meridionali e meno del 20% in quelle centrali. In termini percentuali i valori più elevati si rilevano per i comuni laziali, toscani e marchigiani, con indici superiori al 95%. In Valle d’Aosta, Umbria e Calabria addirittura tutti i comuni sono a rischio idrogeologico.

Fonte: centro documentazione Anci-Ifel

Il caso emblematico di Genova

Il caso di Genova è davvero emblematico degli errori commessi dall’uomo. La città s’insinua tra il versante montuoso dell’Appennino e la fascia costiera affacciata sul mar Ligure. È un territorio stretto e ricco di torrenti, tra cui il Bisagno e il Polcevera, che ne delimitano i confini a Levante e a Ponente: quando piove molto i torrenti si riempiono rapidamente, trascinando a valle ogni cosa. È quanto successo il 4 novembre 2011 quando, a seguito di fortissime precipitazioni che hanno superato i 500 mm in poche ore (circa 1/3 delle piogge che cadono di solito in un anno), in diverse zone di Genova e provincia i torrenti Bisagno e Rio Fereggiano sono esondati e lo Sturla, lo Scrivia e l’Entella hanno avuto un’ondata di piena. Il violento nubifragio, che ha provocato lo straripamento dei corsi d’acqua, ha generato una grande onda di fango misto ad acqua e detriti che ha travolto mezza città, provocando danni alle infrastrutture e causando morti, feriti e sfollati. Sul torrente Fereggiano, dove si sono registrati i danni maggiori, nessuna piena eccezionale riesce a essere contenuta perché gran parte del letto è stato urbanizzato, con edifici e strade costruiti sopra l’alveo.