sezione 1

ALLA SCOPERTA DELL’ANTROPOLOGIA

A tu per tu con l’antropologa

SONO LE QUATTRO DEL POMERIGGIO E LA PROFESSORESSA B. MI ACCOGLIE NEL SUO STUDIO FODERATO DI LIBRI, NEL QUALE SPICCANO ALCUNE FOTO DI PAESAGGI AFRICANI. CI ACCOMODIAMO E LE RIVOLGO SUBITO LA PRIMA DOMANDA.

Buongiorno professoressa, per cominciare vorrei che lei mi spiegasse in parole semplici chi è l’antropologo.

Non è difficile: un ricercatore curioso di tutto quello che gli uomini pensano, dicono, fanno. Citando lo scrittore latino Terenzio (II secolo a.C.), potremmo dire che «nulla di ciò che è umano gli è estraneo».

Può raccontarmi come ha deciso di diventare antropologa?

Certamente. La mia carriera scientifica è iniziata negli anni Ottanta del Novecento, quando, grazie a una borsa di studio, presi parte a una ricerca in Africa centrale, più precisamente presso i Pigmei Mbuti della foresta pluviale di Ituri, nella Repubblica Democratica del Congo, che all’epoca delle mie ricerche si chiamava Zaire. Di formazione sono quindi un’africanista, ovvero una studiosa delle culture native africane; adesso insegno Antropologia culturale e coordino gruppi di ricerca.

Ma torniamo ai miei esordi. Ero già stata in Africa come turista, ma una spedizione antropologica è tutta un’altra cosa. Durante il tour organizzato avevo ammirato paesaggi, fotografato costruzioni caratteristiche, assistito a spettacoli di danze tradizionali organizzati solo per noi; per la mia ricerca dovevo soprattutto incontrare persone, ottenere la loro fiducia, osservarle attentamente, dialogare con l’aiuto di interpreti…

Mi dica, quali furono le difficoltà che incontrò?

Beh, in una ricerca sul campo in Africa ci sono problemi di adattamento al clima tropicale, e poi l’umidità, gli insetti, il rischio di contrarre malattie… ma il compito più delicato è entrare in sintonia con le persone, avvicinarsi al loro mondo, alla loro cultura: in poche parole, occorre attivare lo “sguardo antropologico”, che produce un accorciamento delle distanze, per cui una realtà sociale molto diversa dalla nostra ci diventa familiare.

Poco fa lei ha pronunciato una parola chiave dell’antropologia, il termine “cultura”: può precisarne il significato?

Guardi, cercherò di semplificare, anche se tempo fa uno studioso statunitense raccolse quasi duecento significati diversi di questa espressione. Dirò semplicemente che per gli antropologi “cultura” è tutto quello che serve agli esseri umani per sopravvivere: cibo, abiti, capanne o case in muratura, armi per cacciare, linguaggio per comunicare…

Soltanto questo? E l’arte, la letteratura, la spiritualità, non fanno parte della cultura?

Certamente, ne fanno parte: ne costituiscono il livello simbolico, intellettuale, il piano dei significati e dei valori, che arricchisce e completa quello materiale di cui parlavo poco fa.

Ho capito. Senta, torniamo per un attimo ai nativi africani che lei ha studiato da vicino: non ha mai pensato di dare loro fastidio, con la sua presenza?

Lei ha toccato un punto importante e delicato. Infatti, nonostante tutte le cautele, un certo rischio di comportarsi da “invasori” c’è. Purtroppo l’antropologia culturale si è sviluppata, nella prima metà del Novecento, in un contesto coloniale, di occupazione militare e dominio politico. Gli antropologi occidentali non chiesero certo il permesso ai nativi di osservarli, fotografarli e filmarli! Questo fu il “peccato originale” dell’antropologia, da cui si può uscire solo con la cooperazione e il rispetto reciproco.

Oppure ribaltando i ruoli… se un’équipe di ricercatori africani venisse in Italia a studiare la vita dei pastori, lei che cosa penserebbe?

Ne sarei felice! Impareremmo a osservarci con gli occhi degli altri, sarebbe un arricchimento culturale. Guardi però che sta già accadendo, perché nei cosiddetti paesi in via di sviluppo sta crescendo una generazione di antropologi molto preparati, che presto potremmo incontrare nelle nostre periferie, o nei nostri centri storici, con videocamera e taccuino!

Antropologia in tutto il mondo, quindi?

Certo, è proprio così. D’altronde, una disciplina il cui nome significa “scienza dell’uomo”, può trovare ovunque materiale per le proprie indagini, anche a pochi chilometri da casa, ad esempio nelle metropoli contemporanee, così vivaci e complesse.

Quali aspetti, tra quelli che lei ha appena illustrato, potremo approfondire in questa sezione del libro?

Nelle pagine seguenti avremo modo di familiarizzare con il punto di vista degli antropologi e con l’oggetto specifico della disciplina, partendo dal concetto portante di “cultura”. Sarà un viaggio affascinante che scardinerà alcune certezze e ci mostrerà come questa scienza umana possa contribuire a comprendere molti aspetti del nostro mondo.

Grazie professoressa, e buon lavoro!

unità 2

LA NASCITA DELL’ANTROPOLOGIA

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Prima dell’antropologia

L’interesse per i costumi dei popoli stranieri è presente nella cultura europea fin dai tempi degli storici greci e latini. Pensiamo alle Storie di Erodoto (V secolo a.C.), ricche di informazioni e spunti di riflessione sulle usanze dei popoli con cui i Greci entrarono in contatto, o alla Germania di Tacito (I secolo d.C.), che descrive le tribù germaniche con la precisione di un trattato etnografico.

Tuttavia è solo con l’Illuminismo del Settecento che si manifesta nella cultura letteraria e filosofica europea un modo particolare di rapportarsi all’“altro” che supera la semplice curiosità, poiché l’osservatore occidentale, confrontandosi con esperienze sociali molto diverse dalle proprie, si rende conto della relatività di usi e costumi e giunge a considerare con distacco critico la cultura a cui egli stesso appartiene.

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Riflessioni di questo tipo sono sollecitate anche dai resoconti dei viaggiatori e degli esploratori che, nella seconda metà del secolo XVIII, descrivono una grande varietà di popoli, offrendo agli abitanti del Vecchio Mondo l’immagine della pluralità delle culture. Si pensi, a titolo di esempio, alla risonanza avuta dai viaggi del capitano inglese James Cook (1728-1779), il quale completa il giro del mondo e rivela agli europei l’esistenza dell’Australia (1770), l’ultimo dei continenti.

È in questo contesto che deve essere collocato uno dei generi letterari più amati dagli scrittori illuministi, il racconto filosofico (esposizione di contenuti morali o pedagogici in forma narrativa), in cui è possibile cogliere l’emergere dell’atteggiamento antropologico nella cultura europea.

Un esempio significativo di questa nuova sensibilità è offerto dalle Lettere persiane (1721) di Charles de Montesquieu (1689-1755), romanzo epistolare di cui sono protagonisti Rica e Usbek, nobili persiani che durante un viaggio in Francia osservano con curiosità le usanze europee, che spesso appaiono loro strane e insolite. Il continuo confronto tra la Persia e la Francia determina nei due giovani viaggiatori una certa consapevolezza della relatività di usi, costumi e valori, come si evince da questa acuta osservazione di Rica:

Dietro ai due persiani si cela lo stesso Montesquieu, il quale, assumendo il punto di vista dei viaggiatori orientali, può descrivere la propria società in modo distaccato, come se la vedesse per la prima volta: nel suo romanzo si può cogliere qualcosa di simile al distanziamento rispetto all’oggetto che è la necessaria premessa di ogni ricerca antropologica.

Esemplificativi di tale distanziamento o “decentramento” culturale praticato dagli illuministi sono anche L’ingenuo (1767) di Voltaire (1694-1778) e il Supplemento al viaggio di Bougainville (1773) di Denis Diderot (1713-1784).

Nel romanzo L’ingenuo, Voltaire racconta le avventure di un giovane indiano d’America della tribù degli Uroni, capitato per caso in Francia e coinvolto in intrighi di ogni tipo; nel Supplemento al viaggio di Bougainville Diderot, invece, descrive la vita felice e libera dei Tahitiani. In entrambi i casi gli autori mettono a confronto mentalità e modi di vita europei con modelli radicalmente diversi ma tutt’altro che “primitivi”: l’“ingenuo” possiede una logica stringente ed essenziale, i Tahitiani vivono felici secondo i principi dell’incorrotta razionalità naturale.

Dal loro punto di vista filosofico-letterario, Montesquieu, Voltaire e Diderot anticiparono dunque alcuni temi sviluppati in seguito dall’antropologia: mettendo sullo stesso piano personaggi europei e individui appartenenti ad altre parti del mondo mostrarono la civiltà e la finezza di pensiero dei secondi e, al contempo, assunsero un atteggiamento critico e ironico verso i costumi europei. Nelle loro opere inizia a farsi strada una critica dell’eurocentrismo, ovvero della tendenza a interpretare ogni cosa secondo il punto di vista della cultura europea, ritenuta, apertamente o implicitamente, superiore alle altre.

JAMES COOK A TAHITI
I resoconti di viaggio degli esploratori della seconda metà del XVIII secolo sollecitano la riflessione illuminista sulla pluralità delle culture. Importanti, in questo senso, sono i viaggi di James Cook, di cui il pittore William Hodges (1744-1797) ritrae l’arrivo a Matavai Bay (Tahiti) nel 1769.

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Gli inizi dell’antropologia: l’evoluzionismo

Il quadro di riferimento dei primi antropologi

Nella seconda metà dell’Ottocento, il quadro di riferimento teorico che ha dato unità e coerenza alle ricerche dei primi antropologi è stato l’evoluzionismo, una concezione filosofica destinata ad avere un’enorme influenza, basata sulla convinzione che tutta la realtà, naturale e sociale, è in perenne movimento da uno stato originario indefinito verso forme sempre più complesse e coerenti di organizzazione. Nel campo delle scienze umane e sociali, quali la storia, la filosofia, la sociologia e l’antropologia, l’evoluzionismo ha rappresentato un tentativo di trovare delle leggi generali, valide per tutte le civiltà, in grado di spiegare i mutamenti storico-sociali.

Per il suo carattere speculativo, esso non deve essere confuso con la teoria dell’evoluzione del naturalista britannico Charles Darwin (1809-1882), fondata su solide basi empiriche di osservazioni ed esperimenti. Con molta prudenza scientifica, Darwin non aveva mai indicato un fine o uno scopo nell’evoluzione dei viventi, attribuendo al caso la presenza negli individui di caratteristiche più vantaggiose di altre ai fini della sopravvivenza della specie. Fu il filosofo evoluzionista Herbert Spencer (1820-1903), a estendere la portata della teoria darwiniana, individuando nella natura e nella storia dell’uomo una tendenza verso forme sempre più complesse e armoniose di organizzazione.

Nella seconda metà dell’Ottocento l’impostazione evoluzionistica fu adottata dall’antropologo statunitense Lewis Morgan e dai colleghi britannici Edward Tylor e James Frazer. Essi ebbero in comune due idee basilari: l’unità del genere umano e l’esistenza di stadi universali di sviluppo storico e culturale, per cui tutta l’umanità è in cammino e le società si evolvono secondo la stessa successione di fasi, anche se non contemporaneamente. Nelle prossime pagine presenteremo brevemente l’opera di questi tre importanti autori.

Morgan: l’evoluzione dalla vita selvaggia alla civiltà

Le opere principali dello studioso statunitense Lewis Morgan (1818-1881) sono Sistemi di consanguineità e di affinità nella famiglia umana (1871) e La società antica (1877).

Il libro sui sistemi di consanguineità nacque da ricerche sul campo presso tribù di nativi nordamericani (gli Irochesi), e per questa sua fatica Morgan è considerato l’iniziatore dell’antropologia della parentela, che studia con metodo comparativo l’organizzazione dei sistemi di parentela nelle diverse culture.

In La società antica, invece, Morgan tracciò uno schema evolutivo delle società umane: l’umanità si evolve e progredisce attraverso tre tappe obbligate, scandite dalle innovazioni tecnologiche:

  • la fase di vita selvaggia, in cui i popoli vivono di caccia e raccolta;
  • la barbarie, che inizia con l’introduzione di agricoltura, allevamento e tecniche di irrigazione;
  • la civiltà, contraddistinta da una tecnologia basata sulla scrittura e sull’uso delle macchine.

La classificazione di Morgan, interessante perché attribuisce importanza agli elementi della cultura materiale, come la produzione economica, le tecnologie, i manufatti, oggi non è più accettabile: anche alla luce delle scoperte storiche e archeologiche, infatti, non è più possibile sostenere che vi sia un unico percorso di civiltà comune a tutti i popoli, in relazione al quale distinguere tra culture “progredite” e culture “arretrate” o arcaiche, cioè ferme a uno stadio antico.

L’antropologia odierna preferisce chiarire quale tipo di adattamento all’ambiente presentano i vari popoli, senza stabilire delle classifiche o individuare dei primati di civiltà; adottando questo punto di vista, definire “selvaggi” o “primitivi” i cacciatori-raccoglitori !Kung del deserto del Kalahari o gli Inuit è inappropriato e fuorviante; al contrario, sono popoli che suscitano ammirazione per il perfetto adattamento a condizioni di vita estreme come quelle offerte dall’altopiano desertico del Kalahari o dal Circolo polare artico.

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Tylor: il passaggio dall’animismo al cristianesimo

L’inglese Edward Tylor (1832-1917) fu soprattutto un “antropologo da tavolino”, nel senso che, dopo un’unica esperienza giovanile di viaggio nei Caraibi e in Messico, non si recò più personalmente nei luoghi in cui vivevano le popolazioni oggetto delle sue indagini, ma utilizzò per le sue sintesi tutte le fonti etnografiche all’epoca disponibili, in gran parte resoconti di missionari ed esploratori. Nonostante questo limite, rilevato da antropologi della generazione successiva come Boas e Malinowski, Tylor fu uno studioso di grande scrupolo e precisione metodologica.

Considerato il padre della definizione antropologica di cultura, Tylor si occupò anche di storia delle religioni, a cui applicò lo schema evoluzionistico individuando le fasi teorico-simboliche in cui è progredita la coscienza religiosa dell’umanità. Egli coglie la prima forma di religione nell’animismo dei popoli primitivi, che attribuiscono a tutti i viventi e ai fenomeni naturali un’anima o spirito. Politeismo (credenza in più dèi) e monoteismo (credenza in un solo dio) sono forme di religione più complesse ed evolute, nelle quali tuttavia rimane qualcosa della religiosità primitiva: ad esempio, nella concezione cristiana dell’immortalità dell’anima Tylor avverte la persistenza di un’antichissima credenza animistica, secondo la quale l’anima sopravvive alla morte e alla degradazione del corpo; si tratterebbe dunque di una forma arcaica di spiritualità che si è “trascinata” fino a stadi successivi dello sviluppo storico.

Frazer: il cammino dalla magia alla scienza

James Frazer (1854-1941) fu un altro significativo esponente dell’evoluzionismo britannico. Il suo nome è legato all’opera a cui dedicò lunghi anni di lavoro: Il Ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione (pubblicata nel 1915 in 12 volumi, poi ridotti in un volume unico nel 1922), un’enciclopedica rassegna di miti, riti magici, credenze, usanze, cerimonie rituali delle antiche religioni.

L’evoluzionismo di Frazer si applica allo studio delle forme di conoscenza e organizzazione del mondo, che evolvono da stadi ingenui e superstiziosi a livelli più attendibili e rigorosi. Egli interpretò magia e religione come sistemi prescientifici di conoscenza e dominio delle forze naturali, provvisti di una loro coerenza interna e importanti come istituzioni sociali ma inefficaci rispetto al loro scopo, cioè la comprensione del mondo naturale. Secondo Frazer, soltanto la scienza moderna dell’epoca industriale ha la capacità di spiegare esattamente la realtà e controllarla a vantaggio dell’uomo.

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Gli autori “classici” dell’antropologia

Per “classici dell’antropologia” intendiamo gli autori, europei e statunitensi, che operarono negli anni tra le due guerre mondiali e nel secondo dopoguerra, e che posero le basi metodologiche della disciplina: lavoro sul campo, attenzione al punto di vista del nativo, particolarismo e relativismo culturale. Poiché molte delle loro ricerche fanno ancora testo e i loro punti di vista sono tuttora discussi, si può a buon diritto definirli “classici”, nel senso che a questo termine si dà in letteratura e in filosofia: autori con cui si può ancora dialogare, perché riescono a parlare anche alle epoche successive a quella in cui vissero e lavorarono. Tra gli antropologi “classici” prenderemo in considerazione Boas, Malinowski, Lévi-Strauss.

Il particolarismo culturale di Boas

GLI STUDI SUL CAMPO E LA METODOLOGIA

Franz Boas (1858-1942) è stato il caposcuola dell’antropologia statunitense e il maestro di una generazione di brillanti studiosi, autentici protagonisti della cultura americana verso la metà del Novecento: Alfred Kroeber, Edward Sapir, Ruth Benedict, Margaret Mead, Robert Lowie. Con Boas e i suoi allievi, diretti o indiretti, gli studi etno-antropologici conobbero una fioritura straordinaria, portando gli Stati Uniti all’avanguardia della ricerca in questo campo. Di origine tedesca, Boas studiò matematica e fisica in Germania e si avvicinò alle scienze umane dopo aver partecipato a una spedizione scientifica in Canada, nelle terre degli Inuit. Verso la fine degli anni Ottanta dell’Ottocento si trasferì definitivamente negli Stati Uniti, dove si dedicò allo studio degli indiani della costa Nord-Ovest e, tra il 1919 e il 1922, dei Pueblos, un gruppo di popoli nativi americani stanziati nelle aride regioni dell’Arizona e del Nuovo Messico. Boas è stato lo studioso che ha fatto di più per la conoscenza e la conservazione delle lingue degli indigeni americani: ne parlava moltissime, e di una decina raccolse e pubblicò le regole grammaticali. È importante che un antropologo apprenda la lingua dei popoli che osserva, perché la condivisione linguistica permette non solo di comunicare più facilmente, ma consente una migliore comprensione della mentalità e dei valori di un gruppo umano; la lingua infatti è un elemento essenziale della cultura e dell’identità di un popolo.

Il motto di Boas era «Tutti sul campo!». Contrario all’etnologia da tavolino, alle sintesi evoluzionistiche elaborate su documenti di seconda mano reperiti presso missionari ed esploratori, egli propugnava un metodo di ricerca induttivo sul modello delle scienze naturali, che può essere riassunto nel seguente schema:

  • osservazione diretta di fatti concreti;
  • raccolta e analisi dei dati;
  • elaborazione di teorie e leggi.

DAL PARTICOLARISMO AL RELATIVISMO CULTURALE

Boas studiò le società degli indiani americani del Nord-Ovest, come i Kwakiutl della Columbia britannica, in tutti i loro aspetti. Sono celebri le sue analisi del potlach, una singolare cerimonia di cui Boas rivelò il significato economico e sociale.

Il potlach è un rituale durante il quale un ricco ospite ostenta il suo prestigio e i suoi beni, distribuisce doni agli invitati e, per ribadire la sua condizione abbiente, brucia e distrugge oggetti di valore. Gli invitati sono tenuti a ripetere a loro volta il potlach e a essere altrettanto generosi, in una specie di gara sociale che ha funzioni ben precise: fa circolare la ricchezza, conferma il rango e impedisce l’eccessiva accumulazione di beni in una sola persona, che potrebbe mettere in pericolo l’equilibrio sociale.

Boas rifiutò gli schemi dell’evoluzionismo, che reputava una costruzione mentale non sufficientemente provata da fatti storici e incline a generalizzazioni troppo ampie. Ogni cultura, secondo Boas, possiede delle peculiarità che la rendono unica e irriducibile a uno schema universale come quello degli stadi evolutivi. Questa impostazione è stata definita particolarismo culturale: si tratta di un punto di vista secondo il quale ogni cultura deve essere studiata e compresa in relazione allo specifico ambiente in cui si sviluppa e ai problemi che deve affrontare. Il particolarismo è la premessa indispensabile del relativismo culturale, ovvero di quella concezione per cui tutte le culture hanno una loro validità, e per questo non ha senso valutarle secondo parametri esterni, prodotti da una cultura che si reputa migliore delle altre (etnocentrismo).

Nella seconda metà del Novecento il relativismo culturale fu condiviso da quasi tutti gli antropologi statunitensi, molti dei quali, come si è detto, furono allievi di Boas.

I SUCCESSORI DI BOAS

La scuola antropologica di “Cultura e personalità” fiorì negli Stati Uniti negli anni Trenta del Novecento per opera di allievi di Boas; gli esponenti principali di questo indirizzo furono Abram Kardiner (1891-1981), Ralph Linton (1893-1953), Ruth Benedict (1887-1948), Margaret Mead (1901-1978). Questi autori concepirono la cultura come un sistema di comportamenti che caratterizza un determinato ambiente sociale, trasmesso da una generazione all’altra attraverso quel processo di trasmissione culturale che prende il nome di “inculturazione”.

Nella prospettiva di questo indirizzo, tutti i membri di una cultura condividono un certo numero di tratti comportamentali appresi durante l’infanzia e l’adolescenza, il cui insieme costituisce la personalità di base, ovvero il denominatore comune degli individui appartenenti alla stessa cultura.

A tale proposito sono celebri le ricerche comparative condotte da Margaret Mead su due popolazioni della Nuova Guinea gli Arapesh e i Mundugumor, che permisero alla studiosa di rilevare una significativa correlazione tra metodi educativi e tratti della personalità: gli Arapesh, vezzeggiati e nutriti abbondantemente, erano di regola miti e tranquilli, mentre i vicini Mundugumor, allevati con metodi duri e frustranti, spesso manifestavano comportamenti violenti.

L’indirizzo “Cultura e personalità” appartiene sia alla storia dell’antropologia sia a quella della psicologia sociale e della psicoanalisi per il rilievo dato ai processi di socializzazione e all’apprendimento sociale.

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LABORATORIO DI CITTADINANZA ATTIVA

La tutela delle minoranze linguistiche

INQUADRARE IL TEMA

In una democrazia pluralista, come quella italiana, le differenze culturali non sono abolite o contrastate ma rispettate e, dove possibile, valorizzate. È il caso, ad esempio, delle minoranze linguistiche: forse non tutti sanno che nel nostro paese vi sono dodici lingue minoritarie riconosciute, parlate dal 5% della popolazione italiana: esse costituiscono una ricchezza culturale che lo Stato democratico si incarica di proteggere, a partire dal loro insegnamento nella scuola primaria. Gli estensori del testo costituzionale erano consapevoli che la lingua è un elemento fondamentale della cultura di una comunità, capace di promuovere identità e senso di appartenenza. Pertanto la tutela di una comunità non può prescindere dalla conservazione e valorizzazione del suo idioma storico. Le regioni italiane in cui esiste la parificazione linguistica da più antica data sono due: Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste e Trentino-Alto Adige/Südtirol. Insieme a Friuli-Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna (nell’immagine, alcune donne sarde con il loro abito tipico), esse costituiscono l’insieme delle regioni a statuto speciale, che dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia in vari settori della vita civile (articolo 116 della Costituzione). Gli aspetti concreti della parificazione linguistica sono i seguenti: esistenza di due tipi di scuole (italiane e francesi in Valle d’Aosta, italiane e tedesche in Alto Adige), uso di entrambe le lingue negli uffici giudiziari e nella pubblica amministrazione, bilinguismo dei cartelli stradali. Anche le altre tre regioni a statuto speciale hanno attivato dei provvedimenti di tutela delle loro minoranze linguistiche.

LEGGERE I DOCUMENTI

All’importante e delicato tema della tutela delle minoranze linguistiche la Costituzione italiana dedica l’articolo 6, compreso nei Principi fondamentali, il quale recita:

Dal “Preambolo” della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali (Strasburgo, 1995, successivamente ratificata dall’Italia), possiamo inoltre riportare il seguente passo:

Significativa è inoltre la legge 482, del 15 dicembre 1999, che ha approfondito alcuni aspetti del dettato costituzionale.

Il funzionalismo antropologico di Malinowski

L’ESPERIENZA SUL CAMPO

Bronislaw Malinowski (1884-1942) è considerato il principale teorico del funzionalismo antropologico, un punto di vista che collega la funzione della cultura ai bisogni biologici dell’uomo. Egli fu, come Boas, un emigrante culturale: nato in Polonia nel 1884, visse e lavorò dapprima a Londra (come professore alla London School of Economics), poi negli Stati Uniti (come professore a Yale dal 1938 al 1942, anno della sua morte). Dal 1914 al 1918 soggiornò a più riprese nelle isole Trobriand, situate di fronte alle coste della Nuova Guinea (Etnocarta): da questa esperienza di ricerca sul campo nacquero i volumi Argonauti del Pacifico occidentale (1922) e La vita sessuale dei selvaggi della Melanesia nord-occidentale (1929). L’importante testo Teoria scientifica della cultura, in cui Malinowski espone i fondamenti teorici del funzionalismo, fu pubblicato dopo la sua morte, nel 1944.

Durante la sua permanenza alle isole Trobriand, Malinowski si immerse nella vita sociale degli indigeni, cercando sempre di non fermarsi alle apparenze e di capire la funzione sociale di tutte le usanze, anche le più singolari. Ad esempio, nel saggio del 1922 Argonauti del Pacifico occidentale Malinowski descrisse il kula ring (“circuito kula”) una forma di scambio cerimoniale praticato dagli abitanti di una trentina di isole disposte a cerchio in un’area geografica limitata. Nel kula collane di conchiglie rosse erano scambiate con bracciali di conchiglie bianche, secondo regole ben precise, nel corso di visite che gli abitanti delle varie isole si facevano reciprocamente. Al kula si accompagnava il baratto di prodotti utili, come ad esempio cibi, bevande, oggetti di uso quotidiano. Malinowski rivelò il significato economico e sociale di questa usanza tribale: scoprì che il complicato cerimoniale serviva a promuovere la solidarietà sociale e a stabilire il principio di reciprocità, base del diritto e delle relazioni sociali degli isolani.

Altri aspetti della vita sociale dei Trobriandesi che interessarono Malinowski furono la magia – che con i suoi riti e le sue formule accompagnava molti momenti dell’esistenza degli indigeni, dalla costruzione di una canoa al suo varo, dalla navigazione all’orticoltura – e l’organizzazione familiare: in particolare egli fu colpito dalla grande libertà sessuale prematrimoniale dei Trobriandesi e dalla particolare posizione sociale della donna infatti la discendenza era matrilineare e l’uomo più importante all’interno del nucleo familiare era lo zio, fratello della madre, a cui spettava l’educazione e la tutela dei nipoti.

ETNOCARTA

DOVE VIVONO I TROBRIANDESI

ECONOMIA

I Trobriandesi vivono principalmente di orticoltura, allevamento e pesca. Si muovono su agili canoe, fondamentali per la loro vita sociale poiché è attraverso di esse che portano i doni da scambiarsi.

FAMIGLIA

Nella loro società la discendenza è di tipo matrilineare e i capi ottengono l’autorità per via ereditaria.

USANZE E TRADIZIONI

I Trobriandesi durante le loro feste si esibiscono in danze molto particolari.

i testi dell’unità 2

T1

Bronislaw Malinowski

L’arrivo presso i Trobriandesi

Il testo seguente è tratto da Argonauti del Pacifico occidentale (1922), considerato il capolavoro di Malinowski; frutto di ricerche sul campo condotte nel periodo 1914-1918 alle isole Trobriand, il volume descrive con grande vivacità e ricchezza di particolari la vita sociale degli abitanti di questo arcipelago. Nell’opera sono presentati anche i principi metodologici a cui Malinowski si attenne durante i suoi soggiorni alle Trobriand: conoscenza della lingua dei nativi e metodo dell’osservazione partecipante, ovvero “immersione” nella società presa in esame per essere in grado di valutarne gli eventi sociali secondo la prospettiva degli indigeni.
Il brano che presentiamo racconta l’arrivo di Malinowski alle Trobriand, comunicandoci il senso di spaesamento provato dal ricercatore a contatto con una realtà nuova e diversa e il graduale avvicinamento agli indigeni.

[ Le prime fasi dell’esperienza in Nuova Guinea ]

Immaginatevi d’un tratto di essere sbarcato insieme a tutto il vostro equipaggiamento solo su una spiaggia tropicale vicino a un villaggio indigeno, mentre la motolancia o il dinghy1 che vi ci ha portato naviga via e si sottrae ai vostri sguardi. Dopo aver stabilito la vostra dimora nella casa di qualche bianco dei dintorni, commerciante o missionario, non avete altro da fare che cominciare subito il vostro lavoro etnografico. Immaginate ancora di essere un principiante, senza alcuna esperienza precedente, senza niente che vi guidi e nessuno che vi aiuti, perché il bianco è temporaneamente assente o magari non può o non vuole sprecare il suo tempo per voi. Ciò descrive esattamente la mia prima iniziazione al lavoro sul terreno sulla costa meridionale della Nuova Guinea. Ricordo bene le lunghe visite che facevo ai villaggi durante le prime settimane e il senso di disperazione e di sconforto dopo molti, ostinati ma inutili tentativi che non erano affatto riusciti a farmi entrare in un rapporto autentico con gli indigeni né mi avevano fornito materiale di sorta. Ho avuto dei periodi di scoraggiamento in cui mi sprofondavo nella lettura di romanzi come un altro potrebbe mettersi a bere in un accesso di depressione e noia tropicale. […]

[ I pregiudizi dei “bianchi” ]

Un’informazione che ricevetti da alcuni bianchi residenti nel distretto, pur essendo di per se stessa preziosa, per il mio lavoro fu più scoraggiante di qualsiasi altra cosa. Vi erano qui degli uomini che avevano vissuto per anni sul posto avendo costanti occasioni di osservare gli indigeni e di comunicare con loro e che pure non ne sapevano praticamente nulla. Come potevo io sperare quindi in pochi mesi o in un anno di raggiungerli e superarli? Inoltre, il modo in cui i miei informatori bianchi parlavano degli indigeni ed esprimevano le loro opinioni era, naturalmente, quello di persone non istruite e non abituate a formulare i loro pensieri con un certo grado di coerenza e di precisione. Ed è abbastanza naturale che essi fossero per la maggior parte pieni di quelle prevenzioni e di quei pregiudizi inevitabili nell’uomo medio pratico, sia egli amministratore, missionario o commerciante, ma così fortemente ripugnanti a un intelletto teso a una visione obiettiva e scientifica delle cose. L’abitudine a trattare con leggerezza e fatuità ciò che per l’etnografo è veramente serio, la bassa stima di ciò che per lui è un tesoro scientifico, cioè le particolarità culturali e mentali degli indigeni e la loro indipendenza, queste caratteristiche, così ben note nelle opere scadenti dei dilettanti, le ho riscontrate nel tono della maggioranza dei residenti bianchi. […]

[ Il lavoro sul campo ]

Poco dopo che mi ero stabilito a Omarakana (isole Trobriand), cominciai a prendere parte, in certo qual modo, alla vita del villaggio, a pensare in anticipo agli eventi importanti o a quelli festivi, a prendere interesse personale ai pettegolezzi e agli sviluppi dei piccoli avvenimenti del villaggio, ad aprire gli occhi tutte le mattine su una giornata che mi si presentava più o meno come agli indigeni. […] Litigi, scherzi, scene familiari, eventi di solito banali, a volte drammatici, ma sempre significativi, formavano l’atmosfera della mia vita quotidiana come della loro. Va ricordato che gli indigeni, a forza di vedermi tutti i giorni, smisero di essere interessati, allarmati o anche imbarazzati dalla mia presenza, e io smisi di essere un elemento di disturbo nella vita tribale che dovevo studiare, che la alterava per il fatto stesso di accostarvisi, come accade sempre con un nuovo arrivato in qualunque comunità di selvaggi. […] Nella giornata, qualsiasi cosa accadesse era a breve distanza e non vi era nessuna possibilità che sfuggisse alla mia attenzione. L’agitazione per l’avvicinarsi dello stregone verso sera, una o due grosse liti veramente importanti che spaccavano in due la comunità, i casi di malattia, le cure tentate e i decessi, i riti magici che si dovevano eseguire: a tutte queste cose non dovevo star dietro, spaventato di perderle, perché avevano luogo proprio sotto i miei occhi, davanti alla mia porta, per così dire. È da sottolineare che ogni volta che si verifica qualcosa di drammatico e di importante è essenziale indagarvi nello stesso momento in cui accade, perché allora gli indigeni non possono fare a meno di parlarne, sono troppo eccitati e troppo interessati per essere pigri nel fornire dettagli.

[…] Dovevo imparare come comportarmi e in certa misura acquistai la “sensibilità” per le buone e le cattive maniere indigene. Con questa e con la capacità di provare piacere in loro compagnia e di dividere alcuni dei loro giochi e dei loro divertimenti, cominciai ad avere la sensazione di essere veramente in rapporto con gli indigeni: e questa è certamente la condizione preliminare per essere in grado di portare a termine il lavoro sul terreno.

(B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale, trad. it. di M. Arioti, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 13-17)

la sintesi dell’unità 2

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Prima dell’antropologia

L’atteggiamento antropologico è qualcosa di diverso dalla semplice curiosità per usi e costumi di popoli stranieri. Se quest’ultima è sempre stata presente nella cultura europea, l’atteggiamento antropologico comporta un distacco critico e un’attitudine a mettere in discussione l’eurocentrismo che si sono manifestati in Europa solo a partire dal Settecento, con l’Illuminismo. Esempi di questa nuova sensibilità sono offerti dai racconti filosofici di Montesquieu, Voltaire, Diderot, che nelle loro opere anticiparono temi e problemi trattati dall’antropologia nei secoli successivi.

Gli inizi dell’antropologia: l’evoluzionismo

MORGAN

I primi antropologi, nella seconda metà dell’Ottocento, aderirono all’evoluzionismo. Essi proposero degli schemi di sviluppo storico-culturale universali, ossia validi per tutte le civiltà. Lo statunitense Lewis Morgan (1818-1881) diede inizio alle ricerche di antropologia della parentela e tracciò uno schema evolutivo delle società umane che comprende tre fasi: la fase di vita selvaggia, la barbarie e la civiltà.

TYLOR

Edward Tylor (1832-1917) applicò uno schema evoluzionistico alla storia delle religioni, distinguendo tre forme universali di spiritualità, che, disposte in ordine di complessità crescente, sono: animismo, politeismo, monoteismo.

FRAZER

James Frazer (1854-1941) fu un grande studioso di miti e religioni. La sua spiegazione evoluzionistica riguarda le conoscenze umane, che evolvono da forme prescientifiche, come la magia e la religione, alla scienza moderna, unico sistema conoscitivo che può controllare e prevedere i fenomeni della natura.

Gli autori “classici” dell’antropologia

I “classici” dell’antropologia sono quegli autori novecenteschi che hanno posto le basi metodologiche della disciplina, le cui opere, tuttora al centro del dibattito culturale, si leggono anche oggi con interesse.

BOAS

Franz Boas (1858-1942), insigne linguista e fautore della ricerca sul campo, studiò i nativi nordamericani, scoprendo i significati economici e sociali del potlach, una cerimonia tradizionale di ostentazione e “spreco” delle ricchezze. Caposcuola di una generazione di brillanti studiosi statunitensi, egli si oppose all’evoluzionismo e sostenne il particolarismo culturale, un punto di vista per il quale ogni cultura deve essere studiata in relazione allo specifico ambiente in cui si sviluppa; il particolarismo è la premessa del “relativismo culturale”, secondo cui tutte le culture hanno una loro validità e non ha senso valutarle secondo parametri esterni, che sono quelli prodotti da una cultura che si reputa migliore delle altre.

MALINOWSKI

Bronislaw Malinowski (1884-1942) è stato il principale teorico del funzionalismo, secondo cui la cultura è l’insieme delle risposte socialmente organizzate ai fondamentali bisogni umani, e ha la funzione di proteggere la specie e garantire migliori condizioni di sopravvivenza.

Malinowski maturò le sue teorie durante il lavoro sul campo in Melanesia, presso i trobriandesi, di cui studiò i costumi sessuali e i molteplici significati di uno scambio cerimoniale di beni chiamato kula ring (“circuito kula”).

LÉVI-STRAUSS

Claude Lévi-Strauss (1908-2009) ha legato il suo nome allo strutturalismo, un’impostazione teorica che ricerca le strutture, ovvero quei vincoli mentali universali che sono alla base della cultura e che segnano il confine tra natura e cultura. Come studioso della parentela egli individuò delle strutture universali di mediazione tra natura e cultura, come il tabù dell’incesto, che rende obbligatoria l’esogamia. Mettendo in contatto tribù diverse e potenzialmente nemiche, l’esogamia ha contribuito a creare alleanze e legami pacifici, necessaria premessa dello sviluppo di una società.

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Prima dell’antropologia

Gli inizi dell’antropologia: l’evoluzionismo

Gli autori “classici” dell’antropologia

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esame di Stato

Tema di: SCIENZE UMANE

L’uomo come essere culturale

PRIMA PARTE

Il candidato, avvalendosi delle sue conoscenze e delle riflessioni scaturite dalla lettura e dall’analisi del documento sotto riportato, affronti la questione della specificità dell’uomo come animale incompleto e plasmato dalla cultura rispetto agli altri esseri viventi, pur dotati di complesse abilità pratiche o sociali.

«Per concludere, noi siamo animali incompleti o non finiti che si completano e si perfezionano attraverso la cultura – e non attraverso la cultura in genere, ma attraverso forme di cultura estremamente particolari, dobuana e giavanese, hopi e italiana, di classe superiore e inferiore, accademica e commerciale. La grande capacità di apprendere dell’uomo e la sua duttilità sono state notate spesso, ma ancor più decisiva è la sua estrema dipendenza da un certo tipo di sapere: la costruzione di concetti, l’apprendimento e applicazione di sistemi specifici di significato simbolico. I castori costruiscono dighe, gli uccelli nidi, le api localizzano il cibo, i babbuini organizzano gruppi sociali e i tipi si accoppiano sulla base di forme di apprendimento che poggiano prevalentemente sulle istruzioni racchiuse in codice nei loro geni, e richiamate da modelli appropriati di stimoli esterni: chiavi fisiche inserite in serrature organiche. Ma gli uomini costruiscono dighe o rifugi, localizzano il cibo, organizzano i loro gruppi sociali o trovano i partner sessuali sotto la guida di istruzioni codificate in diagrammi di flusso e progetti, costumi di caccia, sistemi morali e giudizi estetici: strutture concettuali che modellano talenti informi. […]

Le nostre idee, i nostri valori, i nostri atti, perfino le nostre emozioni sono, come lo stesso nostro sistema nervoso, prodotti culturali, fabbricati usando tendenze, capacità e disposizioni con cui siamo nati, ma ciò non di meno fabbricati. Chartres è fatta di pietra e di vetro, ma non è solo pietra e vetro: è una cattedrale, e non solo una cattedrale, ma una particolare cattedrale costruita in una certa epoca da determinati membri di una particolare società. Per capire ciò che significa, per percepirla esattamente, dovete sapere qualcosa di più delle proprietà generiche della pietra e del vetro e qualcosa di più di quanto è comune a tutte le cattedrali. Dovete capire anche – e secondo me nel modo più critico – i concetti specifici dei rapporti tra Dio, l’uomo e l’architettura, concetti che la cattedrale incarna, dato che ne hanno diretto la creazione. Con gli esseri umani non è diverso: anche gli uomini, fino all’ultimo tra essi, sono prodotti culturali».

Clifford Geertz, Interpretazione di culture, trad. it. di E. Bona e M. Santoro, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 64-66

SECONDA PARTE

Il candidato risponda a due dei seguenti quesiti.

  1. Come può essere definita la nozione di cultura in antropologia?
  2. Quale ruolo hanno i concetti e i processi simbolici in genere nella vita associata dell’uomo?
  3. In che modo la socializzazione plasma i comportamenti, i pensieri e i valori di un individuo?
  4. Quali sono i meccanismi di trasmissione della cultura?

LEGGERE VEDERE NAVIGARE

scienze umane in dialogo

1. SIAMO CIÒ CHE MANGIAMO?
Cibo, cultura e società

IL PUNTO DI VISTA della PSICOLOGIA

Le aree della psicologia più interessate ad approfondire i principali aspetti del comportamento alimentare sono la psicologia sociale e la psicologia clinica. La prima studia i condizionamenti sociali che influenzano le scelte individuali in materia di cibo, mentre la psicologia clinica diagnostica e cura i comportamenti patologici nei confronti del cibo.

Il contributo della psicologia sociale

CHI INFLUENZA LE SCELTE

Per la psicologia sociale gli uomini e le donne, essendo esseri sociali, non possono essere conosciuti e analizzati adeguatamente fuori dai contesti in cui vivono. Famiglia, scuola, ambiente di lavoro, gruppo di amici, associazioni influenzano i comportamenti e le scelte individuali, anche in fatto di cibo. La prima e più importante influenza sociale è quella esercitata dai genitori sui figli: è in famiglia che si impara a mangiare, si trasmettono preferenze e avversioni, si apprendono orari e regole e ci si abitua a un certo tipo di “dieta”, nel senso etimologico di “regime alimentare quotidiano” (dal greco díaita, “vita”, “modo di vivere”). L’azione socializzante ed educativa della famiglia è completata dalla scuola che è senz’altro l’ambiente in cui le iniziative di educazione alimentare possono svilupparsi nel modo più adeguato. Nell’adolescenza si impongono come fonti di influenza e condizionamento il gruppo dei pari e i mass media, che avranno un ruolo essenziale anche in età adulta.

LA «GASTROMANIA» TELEVISIVA

Oggi si assiste a una proliferazione senza precedenti dei programmi televisivi dedicati al cibo. Gli scenografi ricostruiscono ad arte lo spazio della cucina e lo trasformano in un “nuovo” luogo di incontro. Come rileva lo studioso Gianfranco Marrone, ordinario di semiotica presso l’Università di Palermo, si può parlare di una vera e propria «gastromania» che ha una conseguenza positiva in quanto contribuisce a recuperare la primaria funzione socializzante e conoscitiva del cibo. I nuovi format intercettano (e incontrano, dato il loro successo) importanti bisogni della società contemporanea: gli spettatori, “entrando” nelle cucine televisive, partecipando in diretta alla preparazione dei cibi, ascoltando le discussioni sul valore e la qualità delle materie prime, sperimentano quel significato “conviviale” che la consumazione del pasto aveva in epoche passate, in cui la cucina era luogo di “conversazione” e di condivisione privilegiato; significato che, con l’accelerazione della vita quotidiana, si è perso, sostituito dai fast food, dai cibi pronti e surgelati. A fronte della diffusione e del successo di questi programmi, molti giovani, oggi, cominciano a risultare sensibili a scelte alimentari qualitativamente migliori; inoltre, nel loro immaginario, iniziano a considerare l’attività del cuoco come un obiettivo prestigioso, inserendola a pieno titolo tra le professioni tradizionalmente più ambite.

I disturbi del comportamento alimentare

A differenza di quella sociale, la psicologia clinica si occupa dei disturbi del comportamento alimentare i quali sono principalmente l’anoressia e la bulimia.

IL DISTURBO ANORESSICO

L’anoressia si manifesta come rifiuto del cibo e colpisce prevalentemente le persone giovani, dai 15 ai 25 anni, in maggioranza di sesso femminile. Secondo il DSM (il Manuale Statistico Diagnostico dei disturbi del comportamento usato dagli psichiatri), chi soffre di anoressia vuole ostinatamente perdere peso, ha terrore di ingrassare e ha una percezione alterata del proprio corpo, che continua a vedere “grasso” anche quando è sottopeso (disturbo di “dismorfismo corporeo”). A queste manifestazioni comportamentali si accompagna l’amenorrea, ovvero la scomparsa del ciclo mestruale. L’anoressia è indubbiamente favorita dal culto della magrezza e della forma fisica veicolato dai media, ma dare la colpa dell’anoressia allo star system o al mondo della moda sarebbe superficiale e fuorviante. Nella maggior parte dei casi tale disturbo affonda le sue radici in contesti familiari rigidi e iperprotettivi, e nei nodi irrisolti di un rapporto conflittuale tra madre e figlia. È come se la ragazza, che avverte su di sé il peso insostenibile delle aspettative dei genitori, cercasse uno spazio di autonomia nella ferrea sorveglianza del proprio corpo, celebrando una sorta di trionfo personale ogni volta che l’ago della bilancia scende inesorabilmente. Per il soggetto malato, il cibo è simbolo di quell’amore che egli desidera e che gli manca, ma che non può controllare.

LA PATOLOGIA BULIMICA

Diversamente dall’anoressia, con la quale molte volte si alterna nello stesso soggetto, la bulimia è una patologia caratterizzata da frequenti “abbuffate”, durante le quali la paziente (perché anche in questo caso si tratta perlopiù di giovani donne) ingerisce in breve tempo grandi quantità di cibo, senza preoccuparsi della qualità o della varietà di quello che mangia. A queste condotte compulsive si accompagnano azioni di compensazione, come il vomito autoindotto, l’uso di lassativi e l’intensa attività fisica, allo scopo di mantenere invariato il peso. Dal momento che, a differenza dell’anoressia, la bulimia lascia sul corpo segni meno evidenti – consentendo ad esempio una relativa stabilità del peso – è più difficile diagnosticarla. Le conseguenze sono comunque devastanti sulla salute di chi ne soffre: il vomito autoindotto causa problemi gastrici, erosione dello smalto dentale, disidratazione e disfunzioni cardiache. Come l’anoressia, anche la bulimia affonda le sue radici nel vissuto soggettivo: la persona bulimica, che ha scavato un vuoto affettivo immenso dentro di sé, si accanisce in un tentativo impossibile e illusorio di “riempirlo” attraverso il cibo, ottenendo, grazie al sintomo patologico, una sorta di “tregua” dalla sofferenza.

IL RUOLO DELLA PSICOTERAPIA

Per entrambi i disturbi alimentari si è rivelata efficace la psicoterapia, che in molti casi coinvolge anche i familiari della paziente. Come afferma Fabiola De Clerq – scrittrice italiana e fondatrice dell’“Associazione Bulimia e Anoressia” (ABA) – il sintomo anoressico o bulimico è la punta dell’iceberg, il segno di una sofferenza che ha origini psicologiche profonde. Per questa ragione non può essere aggredito: «è necessario invece cercarne le cause senza tuttavia perdere di vista la gravità dei risvolti che possono mettere a rischio la vita» (F. De Clercq, Donne invisibili, Bompiani, Milano 1995).

Video

La prospettiva pedagogica: l’educazione alimentare

È tenendo conto degli esiti problematici e talvolta patologici che possono derivare da un cattivo rapporto con il cibo, che la pedagogia progetta e realizza programmi di educazione alimentare rivolti in modo particolare a bambini e adolescenti.

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Il cibo... agli estremi

NEL MONDO NEGLI ULIMI TRENT’ANNI L’OBESITÀ È PIÙ CHE RADDOPPIATA; ALL’ESTREMO OPPOSTO IL NUMERO DI PERSONE DENUTRITE, NONOSTANTE SIA DIMINUITO DI CIRCA 200 MILIONI, È ANCORA MOLTO ALTO.

FONTI: WHO - World Health Organization (who.int); FAO - Food and Agriculture Organization of the United Nations (fao.org); WFP - World Food Programme (wfp.org).
NOTA: stime e proiezoni basate su dati raccolti in tutti gli Stati del mondo, in riferimento agli anni 2014 e 2015.

LA VALORIZZAZIONE DEL “CIBO MEDIO”

Secondo Andrea Segrè, professore di Politica agraria all’università di Bologna e fondatore di Last Minute Market (l’impresa volta a sfruttare i risultati della ricerca universitaria, recuperando il cibo vicino alla scadenza, ma ancora buono, per consegnarlo a chi ne ha bisogno) l’educazione alimentare dovrebbe proporsi in primo luogo di ridare valore al cibo: bisogna abituarsi a pensare che nei nostri piatti ci sia dell’oro, qualcosa di prezioso che deve essere rispettato e non gettato via con noncuranza. In questa prospettiva, il primo obiettivo dell’educazione alimentare deve essere quello di promuovere il «cibo medio». Vediamo che cosa intende lo studioso con questa espressione.

Secondo Segrè, attualmente la produzione e il “consumo” di cibo (termine che egli vorrebbe sostituire con “fruizione”, perché il verbo consumare gli sembra troppo simile a distruggere), sono polarizzati su due estremi: cibo “alto”, di grande qualità ma costoso, e cibo “basso”, junk food, “cibo spazzatura”, molto economico ma di qualità scadente. Il «cibo medio», di cui auspica un incremento, è quello igienicamente sicuro, buono, gustoso ma inevitabilmente più caro. Perché la sua valorizzazione rappresenti un obiettivo reale è necessario che aumenti il numero di consumatori/fruitori “educati”, che sono disposti a spendere qualcosa di più per avere sulla loro tavola alimenti di qualità.

LA LOTTA AGLI SPRECHI

Il secondo aspetto importante dell’educazione alimentare, correlato alla valorizzazione del cibo, è per Segrè la lotta agli sprechi. Chi attribuisce valore al cibo non lo spreca, mettendo in atto una serie di comportamenti virtuosi che iniziano quando si apre il frigorifero per controllare che cosa manca, proseguono quando si scrive la lista della spesa e con quella si affronta la grande tentazione del supermercato, in cui tutto – dalla disposizione delle merci ai colori, dalle allettanti offerte ai messaggi pubblicitari – ci invita a riempire il carrello di prodotti superflui.

Chi dà valore al cibo fa rivivere quella cultura del recupero e del riutilizzo che caratterizzava le famiglie italiane prima che il consumismo introducesse la mentalità dello scarto, del rifiuto di tutto ciò che non è perfetto, freschissimo e bello da vedere. Pertanto una cultura del rispetto può iniziare dalla cucina, ad esempio preparando gustose pietanze con il cibo avanzato o con frutta e ortaggi dall’aspetto non impeccabile. Anche se il collegamento può sembrare un po’ azzardato, il rispetto e la cura per le cose sono la premessa del rispetto per la dignità delle persone.